Forse i nostri lettori ricorderanno Elisa De Luca, che già nel 2016 avevamo intervistato nel nostro blog e che mi colpì per questa bella frase, che risuona quasi come un motto: è bello farcela con l’aiuto degli altri, per carità, ma volete mettere la soddisfazione di cavarsela da soli? Sono trascorsi ormai più di 4 anni, e di cose ne sono certamente accadute. Vediamole insieme ad Elisa, che ritrovo con grande piacere anche se, proprio a partire da quell’intervista, non abbiamo mai smesso di restare in contatto.
Elisa, che piacere, e grazie! Partiamo dalla fine, come vedi questo anno così particolare per le persone con disabilità e come vedi, alla luce di ciò, il futuro?
Ciao Daniele, è un grande piacere anche per me essere intervistata da Jobmetoo. Quest’anno presenta sicuramente molte sfide per tutti, ma, come al solito, se si fanno anche i conti con una disabilità, le cose possono complicarsi (e, spesso, non poco). Personalmente, durante i mesi di lockdown più stretto mi sono trovata a dover fare fronte a molte difficoltà: l’impossibilità di fare fisioterapia, per esempio, ma anche le difficoltà a fare la spesa online, che mi hanno costretta ad andare fisicamente al supermercato, con file anche lunghe (cosa non proprio entusiasmante per le mie gambe e per la mia schiena) e trasportare pesi fino a casa. Senza trascurare il lavoro da remoto, che, se da un lato mi ha dato la possibilità di continuare a svolgere la mia attività professionale senza interruzioni (lavorando nel digital, con un computer, un telefono e una connessione Internet posso davvero essere operativa da dovunque!), dall’altro mi ha privata per mesi di uno degli aspetti per me più importanti (e piacevoli) del mio lavoro: la condivisione coi colleghi, non solo via webcam/telefono, ma in presenza. Ecco, credo che l’aspetto della “socialità perduta” (o molto ridimensionata) che stiamo vivendo sia particolarmente rilevante per molte persone con disabilità (me compresa), che già, magari, in situazioni normali non avevano tutte queste opportunità di fare vita sociale. Per restare all’ambito lavorativo, inoltre, credo che questa situazione possa, magari, dare qualche opportunità professionale in più a chi ha una disabilità, soprattutto se grave. Ma la vera inclusione non può prescindere, a mio avviso, dalla condivisione di tempi e spazi coi colleghi, nonché da tutte quelle dinamiche “da ufficio” che possono fare la differenza non solo sul lavoro, ma anche ad un livello più ampio.
Parole sante, Elisa, e già espresse nell’intervista . Aggiornami su questi ultimi anni e sui tuoi percorsi lavorativi!
Dal 2016 ad oggi sono cambiate (in meglio!) un bel po’ di cose, sul piano professionale. Dal 2018 lavoro in Omnicom Media Group (nello specifico, in OMD), dove mi occupo di campagne pubblicitarie online per grandi brand, soprattutto su mercati internazionali. È un lavoro molto stimolante, in costante evoluzione, che richiede sempre il massimo dell’impegno e dell’elasticità mentale, nonché una visione strategica a medio-lungo termine, perché i risultati delle singole campagne debbono, ovviamente, riflettersi in ben più tangibili risultati di business per le aziende clienti. Da un anno, poi, faccio parte del gruppo Diversity & Inclusion di OMG: insieme a colleghi appartenenti a tutte le sigle del gruppo, organizziamo momenti di sensibilizzazione e riflessione su vari temi, inclusa la disabilità, coinvolgendo il maggior numero possibile di persone, indipendentemente dalla seniority. Parallelamente, ho continuato a portare avanti la mia attività su Move@bility, anche se in questi mesi, non è sempre facile parlare di libertà di movimento e barriere architettoniche, considerato che siamo tutti, chi più chi meno, limitati nella nostra libertà di movimento, a causa della pandemia. Debbo dire, però, che lavorare in un contesto come quello di OMG, nel quale il valore delle persone e delle loro diversità viene considerato un punto di forza e non di debolezza, il tutto in un contesto molto cordiale e, oserei dire, familiare, nonostante siamo davvero in tanti, mi sta aiutando a trovare sempre energie e spunti per nuove iniziative.
Quanto è importante il marketing per un’azienda e, soprattutto, quanto è importante il linguaggio giusto?
Credo che marketing e comunicazione, in tutte le loro declinazioni, siano oggi più che mai asset strategici per le aziende. L’attuale situazione potrebbe far pensare che non sia il momento opportuno per comunicare o per investire, per restare nell’ambito di mia competenza specifica, in pubblicità. Ma non è così: bisogna trovare il tono giusto per comunicare agli utenti (nonché potenziali clienti) che l’azienda è sempre al loro fianco, con i propri prodotti e servizi. Non è semplice, certo. Ma neanche impossibile.
Ci siamo conosciuti con Move@bility: a che punto è oggi il progetto?
Move@bility continua a crescere e a darmi modo di entrare in contatto con persone e progetti interessanti. Mi capita spesso di essere contattata per intervenire durante eventi (al momento, naturalmente online) dedicati al tema dell’inclusione, con particolare riferimento al mondo del lavoro. È sempre un piacere, per me, portare la mia testimonianza personale, condividendo la mia esperienza tutto sommato di successo, con l’intento di offrire uno spunto di riflessione per arrivare tutti insieme (su questo aspetto non insisterò mai abbastanza) a determinare un cambiamento che consenta veramente di vivere in un mondo a misura di tutti. Attraverso il sito, cerco di veicolare una visione della disabilità alternativa rispetto al solito, e anche stucchevole, dualismo tra “supereroi” e “fuori casta”, col quale chiunque abbia una disabilità si è trovato a doversi confrontare, prima o poi. Sono convinta, anche grazie alla mia esperienza personale, che chi ha una disabilità possa essere anche artefice del proprio destino, non debba limitarsi necessariamente a subirlo. Certo, ci vuole impegno, un pizzico d’intraprendenza e una buona dose di coraggio, ma si può fare, citando una delle battute più celebri da un film che adoro, “Frankenstein Junior”.
Cos’è per te la disabilità?
La disabilità, per quanto mi riguarda, è uno dei tratti che mi caratterizzano (un po’ come l’altezza, il genere, la caparbietà o gli occhi castani), che, ovviamente, ha influito e influisce tuttora notevolmente sulla mia vita. Ma non è necessariamente un limite: semmai, è una spinta a cercare nuovi modi per fare le cose che la mia condizione fisica non mi consentirebbe. Naturalmente, molto dipende dal contesto, sia fisico (e qui torniamo al tema delle barriere architettoniche) che sociale nel quale si vive: per fare un esempio, se non vivessi a Milano, ma nella cittadina siciliana nella quale sono nata, sentirei molto di più il peso delle limitazioni fisiche imposte dalla mia disabilità specifica e dovrei fare più spesso affidamento sull’aiuto di altri. Anche per questo ho deciso d’impegnarmi anch’io sul fronte dell’eliminazione delle barriere architettoniche e culturali: credo fermamente che solo sentendo come “proprie” le difficoltà altrui, anche quando non toccano direttamente noi o qualcuno a cui vogliamo bene, ci si possa impegnare efficacemente per cambiare in meglio le cose.
Qual è il più grande suggerimento che daresti ad un’azienda che assume un lavoratore con disabilità e, ugualmente, cosa suggeriresti al lavoratore?
Il suggerimento che darei è, fondamentalmente, lo stesso per l’azienda e per il lavoratore: non soffermarsi sulla disabilità, e sulle difficoltà (o le impossibilità) che essa determina, ma sulla persona, sulle sue competenze, esperienze e possibilità. La prima cosa che un’azienda dovrebbe chiedersi, valutando un lavoratore con disabilità (così come chiunque altro), dovrebbe essere: cosa può fare questa persona per la nostra organizzazione? In che modo le sue esperienze e competenze, nonché il suo carattere e le sue attitudini possono aiutarla a raggiungere i propri obiettivi? Analogamente, il lavoratore non deve presentarsi come “problema” o ponendo l’accento sul “bisogno di lavorare” (che non è solo delle persone con disabilità), ma, appunto, sul modo in cui può inserirsi efficacemente nell’organizzazione aziendale e contribuire alla sua crescita, non solo in termini di business e fatturato, ma anche umana. Io ho fatto proprio questo, in tutto il mio percorso professionale: a volte mi sono presa delle porte in faccia, altre ho scelto di non accettare proposte che non erano in linea con le mie aspirazioni o competenze, altre ancora ho avuto la possibilità di entrare in contesti che mi hanno dato tantissimo, sia sul piano professionale che su quello umano. Non dimentichiamolo: le aziende sono fatte da persone, non solo da numeri. E, da questo punto di vista, credo che sia molto importante e positivo che stia crescendo sempre più l’attenzione reale (non solo di facciata) verso temi come diversity e inclusion, come dicevo prima. Non aspettiamo che qualcuno ci dia una possibilità (magari, per pietismo): andiamo a prendercela! Non partiamo già dal presupposto che “non ci sceglieranno” o che “dovremo accontentarci”: non è affatto detto che debba andare così. Quando ho sostenuto il colloquio con colui che, da circa tre anni, è il mio capo in OMD, venivo da vari colloqui nei quali la disabilità era stata, più o meno velatamente, il motivo per cui ero stata scartata. Ma con lui è andata diversamente, perché, allora come adesso, non si è soffermato su quell’aspetto, ma sulla mia professionalità e sulla persona che aveva davanti. Che, poi, è esattamente quello che dovrebbe accadere in ogni colloquio, no? Beh, posso confermarvelo: non è un’utopia, succede davvero! E mi auguro che possa essere sempre meno l’eccezione e sempre più la regola, per tutti.
Alla fine di questa intervista, faccio davvero fatica a scegliere un punto da cui partire. Elisa è una persona completa, ma non per questo sazia: vuole crescere, evolvere, anche attraverso sfide difficili. Elisa ha preso molte porte in faccia: anche questo va ricordato, perché le sono servite a trovarsi dove si trova oggi. Mi auguro che questa determinazione sia contagiosa, un contagio, questo sì, di cui tutti avremmo bisogno, disabili o meno. E quando, molto sottilmente, Elisa ci spiega che non si può avere inclusione senza condivisione, mette in luce il fatto che far lavorare le persone con disabilità a distanza non è la soluzione di tutti i problemi. Inclusione si ha quando ci si ritrova tutti insieme, vicini, corpo a corpo. Che è quello che ci auguriamo di tornare a fare presto. Nel frattempo, lasciamo sedimentare in noi i preziosi consigli di Elisa.