Lady Oscar esempio perfetto di Diversity & Inclusion

Quando Boy George si fece conoscere al mondo, siamo nei primi anni Ottanta, non ricordo che la questione di genere fosse la prima domanda che noi ragazzini ci facevamo su di lui. Stupiva l’eccezionalità del personaggio, la sua voce soul così trascinante, quel fascino insieme destabilizzante e rassicurante. Per certi versi, stavamo già dimostrando che l’inclusione non cresce necessariamente col passare del tempo (è una delle mie convinzioni più forti). Certo, se oggi una persona col look da Boy George si presentasse ad un colloquio di lavoro per un posto “normale” avrebbe più chance rispetto a quarant’anni fa, ma è anche vero che io, da ragazzino con disabilità, le gite con la scuola le ho fatte tutte, mentre oggi si leggono notizie che non vorresti leggere: uno scolaretto si presenta in classe ignaro del fatto che i compagni siano in gita.

E sempre in quel periodo, esattamente quarant’anni fa ai primi di marzo, irrompeva in Italia con la sua spada Lady Oscar. Cosa non si è ancora scritto su questa eroina senza tempo? A partire da alcuni stralci della sigla più conosciuta (“…il buon padre voleva un maschietto ma, ahimè, sei nata tu…”) alla figura così ibrida in cui maschi e femmine egualmente si riconoscevano, Lady Oscar ha esercitato, ed esercita tuttora, un’influenza indiscutibile su chiunque la incontri (“la”, perché era di sesso femminile). E, a proposito della sigla, niente più del fioretto che suo padre ripone nella culla può bilanciare quel rammarico quasi sfuggente (“ahimè”) che porta sulle spalle il peso di migliaia di anni in cui la donna era stata considerata inferiore all’uomo. Già, perché, con la sua spada Lady Oscar è rispettata dai maschi e ammirata dalle femmine, che la invidiano perché “anche nel duello eleganza c’è”.

Ed è su questa strofa che sempre più spesso mi soffermo quando penso a diversità ed inclusione. Mi soffermo su questa strofa perché, in modo mirabile, ci fa capire che la donna può (e deve) avere le stesse chance di un uomo senza perdere le sue prerogative. In altre parole, il modo migliore per esprimersi è quello di restare fedeli a se stesse. Anche perché, se “scimmiottasse” l’uomo, la donna non potrebbe esprimere quelle potenzialità che le sono proprie (generalmente, non voglio cadere nella trappola della banalizzazione) e che rappresentano il valore aggiunto di cui si è sempre sentita la mancanza. Le riassumerei così: la capacità di conservare una visione globale dei fatti, l’attenzione ai dettagli, la capacità di gestire più task contemporaneamente.

E tornando a Lady Oscar, a Boy George, a quel condottiero che era Capitan Harlock e che oggi nessun produttore si sognerebbe di pubblicare mai, mi rendo conto che, in questi anni, le aziende vivono con un grande peso, a volte mal nascosto da uno smagliante sorriso di circostanza, la gestione della diversità. La vivono come un obbligo morale a cui non ci si può sottrarre, e spesso non ci credono fino in fondo. Più che altro: temono che crederci non basti. Ecco perché ogni processo di inclusione, prima di essere sbandierato, dovrebbe essere vissuto e interiorizzato, compreso il farci a cazzotti, perché inclusivi un po’ si nasce ma molto si diventa. E, quando lo si diventa, lo si comunica. Non c’è una comunicazione esterna che non sia prima una comunicazione (e quindi una condivisione) interna.

Di Boy George e Lady Oscar non ci interessava molto saperne il sesso, ci coinvolgeva molto di più cosa erano capaci di fare: con la loro voce, con la loro spada. In altre parole, ci interessava il frutto del loro mestiere. Se oggi Diversity, Equity & Inclusion sono temi così importanti e impattanti, lo dobbiamo anche a loro. E anche al papà di Oscar, se vogliamo essere veramente equi: ha sfidato tempi e convenzioni e anche lui ha la sua parte di merito.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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