Tanto, veramente tanto tempo fa (dicembre 2021), nell’era geologica dei social, si visse l’ennesima tempesta dentro un bicchiere d’acqua. Erano, queste, tempeste che facevano presagire crolli di montagne e sollevamenti di mari, salvo poi rientrare in una manciata di giorni per lasciare spazio alla nuova Tempesta nel Bicchiere d’Acqua. La tempesta di cui parlerò oggi è quella del buon Renatino, stoico dipendente di una nota casa di formaggio. Pare che Renatino non fosse mai andato a Parigi e che lavorasse 365 giorni all’anno (366 negli anni bisestili).

Il “buon” Renatino ha scatenato la reazione di molte aziende che non si sono lasciate sfuggire l’occasione di un bel “booster” di visibilità. Tra le repliche più curiose, quella di una (anch’essa nota) marca di birra che metteva in risalto il fatto di avere una dipendente che, nonostante oltre due mesi senza mettere piede in azienda (quindi si presume per ferie, smart working, ecc) ci mette “molto del suo odio” quando lavora. Due poli che non potrebbero essere più lontani e che la polemica ha il gran potere di uniformare sotto un’unica bandiera.

Ciò che più mi ha colpito di questa vicenda è che praticamente nessuno ha provato – lo farò io adesso – a vedere il tutto da un punto di vista completamente diverso: e se Renato (per me è Renato, non il “buon Renatino”… chi ha orecchie per intendere, intenderà) fosse la prova che, quando si lavora in un’azienda attenta e inclusiva, forte e coerente nei valori come negli obiettivi da raggiungere, le aziende sono più avanti di quanto crediamo? Non è forse Renato, prima di essere un dipendente, la sintesi di un processo di diversità, equità, inclusione, in cui il dipendente vive le sorti dell’azienda come fossero le proprie? E non è forse Francesca (impiegata nel birrificio) la dimostrazione che sentimenti negativi e frustrazioni non siano merce da baratto con lo smart working o altre forme di flessibilità che l’azienda decide di erogare?

In altre parole: cosa c’è di male nell’avere dei collaboratori felici, che lavorerebbero 365 giorni all’anno (ma tutti sanno che questo non accade)? E quanto scombina i piani delle Aziende volte più a compiacere che non a piacere (a se stesse, alle forze che vi lavorano, agli stakeholder) capire – attraverso l’odio di Francesca – che non è la flessibilità “a prescindere” che rende i dipendenti più felici e produttivi?

Diversity & inclusion, sostenibilità, e tutti i driver che ci chiedono impegno su questi fronti, e che spesso innescano processi burocratici non indifferenti (necessari, certo, ma tolgono pathos alle azioni più importanti), poco potranno portare in termini di reale crescita se non ci si preoccuperà dell’unico aspetto che davvero conti in un’azienda: che ciascuno di noi, che sia un numero 10 o un terzino che non sa neanche calciare col sinistro, si possa sentire davvero indispensabile. “Tutti sono utili e nessuno indispensabile”, cita un motto saggio. L’azienda illuminata invece dice: “Tutti noi siamo indispensabili”. È vero, forse non è così, ma l’Azienda illuminata lo dice perché ci crede. E alla fine accade per davvero.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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