Dalla moglie di un caro amico che mi segnala come, dopo ogni maternità, la carriera delle donne nell’azienda in cui lavora subisce una silente interruzione, al conoscente (professione medico) che mi racconta di un suo recente convegno negli USA e nel grande fermento sul “politicamente corretto” che attraversa gli States in questo periodo; che le vacanze siano in montagna o al mare (o altrove ovviamente) si parla sempre un po’ dei rispettivi lavori. In particolare, mi ha colpito l’esternazione di un altro conoscente, un professionista nella consulenza informatica che si interfaccia con grandi Gruppi, in merito al linguaggio: pur non essendo la Diversity & Inclusion il suo campo d’azione, egli riceve continuamente stimoli in tal senso perché le Aziende per cui lavora sono, per lo più quelle di grandi dimensioni, abituate a toccare questi aspetti.

Quasi con un velo di imbarazzo (forse perché io mi occupo di D&I), ha ammesso di sentirsi sempre più in difficoltà quando deve esprimersi pubblicamente. Vocaboli “vietati”, la necessità di essere “politicamente corretti”, il timore di offendere qualcuno utilizzando parole oggi considerate offensive senza il minimo intento: tutto questo inibisce in partenza la produzione del linguaggio, costringendoci ad una autocensura preventiva che, se da una parte non urta la sensibilità di nessuno, dall’altra mina alla base la naturalezza dei rapporti umani. Il tutto condito da una perenne ansia di sottofondo. La sua frase finale (sempre con un sorriso di imbarazzo): “Bisogna essere tutti neutri, altrimenti chi sa cosa ti succede…”. Sul momento, colpito dalle sue parole (e mai come in questo caso credo che uno abbia legittimamente parlato per la moltitudine), non ho potuto che accogliere la sua esternazione, promettendo più a me che a lui di rielaborarla e lavorarla appena possibile. Cosa che sto facendo adesso, specialmente rivolto alla mia rete che si occupa quotidianamente di Diversity.

Sappiamo bene che cambiare il linguaggio serve – col suo tempo di maturazione – a cambiare la realtà. Se oggi mi sentissi dire “sei un handicappato!” proverei un fastidio decisamente superiore rispetto a venti anni fa, quando per un passaggio sbagliato al campo di calcetto gli amici (autentici) ti dicevano molto peggio. È anche vero che noi addetti ai lavori dobbiamo essere sempre in ascolto e ricettivi in merito a quegli aspetti che tendiamo a dare per scontati: è sufficiente dire che una parola è “vietata” e va sostituita con una “permessa”? La (mia) risposta è ovviamente negativa. Parliamo di processi storici, anche lunghi, che hanno un forte impatto sulle nostre vite.

Oltretutto, non basta neanche dire: “Ma negli USA fanno così, in Svezia fanno cosà…” perché ogni luogo (come le persone) ha le sue unicità e peculiarità tali da non poter consentire un’applicazione delle politiche di Diversity allo stesso modo. Se per una multinazionale è basilare essere adeguatamente rappresentata etnicamente, per una piccola impresa sarà di maggior impatto assumere una persona con disabilità. Essere ispirati sì, ma senza mai perdere di vista il proprio territorio. Tutto questo, e molto altro, forse perfino troppo per dare una risposta al mio conoscente che lavora nella consulenza, ma sicuramente un ottimo spunto di riflessione, possiamo trovarlo in una intervista di Luca Ricolfi (Fondazione Hume) a Marco Del Giudice, docente di Psicologia Evoluzionistica e metodi quantitativi negli Stati Uniti, che, parlando del politicamente corretto negli USA, ci apre la mente su molteplici aspetti su cui, presi come siamo da un nuovo “Grande Risveglio” (Great Awokening), rischiamo di non cogliere nella loro pienezza.

Non per mettere troppa carne al fuoco, ma proviamo a soffermarci su un paio di osservazioni prese da un articolo (anche questo da leggere e rileggere) di Vincenzo Zeno Zencovich, docente di Diritto Comparato.

Questa frase sembra non lasciarci scampo: da un lato si promuovono società multiculturali/multietniche, ma dall’altro non si possono indicare preferenze perché questo è, esplicitamente o implicitamente, razzista; e non è possibile delineare – neppure su una rigorosa base sociologica – quali siano le caratteristiche di alcune comunità. Pensiamoci bene: non è esattamente quello che sta accadendo?

E ancora: Il sistema eliocentrico del “politicamente corretto” ruota attorno al sole dei diritti umani visti non come una nozione in continua evoluzione, ma in una dimensione simil-teologica.

In altre parole, siamo e saremo capaci di utilizzare al meglio lo strumento – perché altro non è – del politicamente corretto per raggiungere obiettivi di reale inclusione e non discriminazione rispettando gli insegnamenti, sicuramente ancora dolorosi, della storia? Saremo capaci di mantenere una adeguata apertura mentale per evitare che lo strumento diventi il fine? In quanto pionieri della Diversity & Inclusion, a noi l’onore di aver capito la rotta da seguire; a noi anche l’onere di vigilare sulle pericolose insidie che si nascondono durante il raggiungimento di alti obiettivi di civiltà: che la meta sia quella giusta (una società inclusiva e aperta) non credo ci possano essere voci contrarie.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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