Da persona direttamente interessata dalla sordità, il riconoscimento ufficiale della LIS (Lingua Italiana dei Segni) nell’ambito del recente Decreto Sostegni mi suscita emozioni non semplici da riportare su carta. Vorrei partire da molto indietro nel tempo, precisamente dal 1880, a Milano, dove si tenne la Conferenza internazionale sull’educazione dei sordomuti (oggi “sordomuto” non si utilizza più per legge in quanto la capacità di parlare è, nella maggior parte dei casi, intatta in chi nasce con una sordità: se non parla bene è solo perché non può sentire la propria voce). A maggioranza praticamente schiacciante, venne stabilito d’ufficio che per l’educazione dei sordi si sarebbe dovuto usare esclusivamente il metodo verbale (oralismo) a scapito della lingua manuale. Da quel momento in poi i sordi segnanti vissero un periodo di forte oscurantismo e solo informalmente, e segretamente, il patrimonio della lingua visivo manuale poté tramandarsi attraverso le generazioni. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, specialmente negli USA, la Lingua dei Segni tornò sotto gli occhi dell’opinione pubblica.

Il mondo della disabilità è certamente complesso, e spesso accade che la complessità si incontri anche quando abbiamo a che fare con la stessa tipologia di disabilità! Nel caso della sordità, diverse sono le teorie di riferimento che vedono tra i due poli opposti – oralismo e lingua dei segni – molteplici forme ibride con una conseguente sfaccettatura del mondo associazionistico che porta avanti battaglie per finalità diverse, anche se tutte mirate all’emancipazione del sordo. Per farmi capire ancora meglio: se con la LIS è automaticamente riconosciuta la professionalità degli interpreti, è chiaro che saranno stanziati dei fondi che non potranno essere usufruiti da chi predilige l’oralismo e chiede finanziamenti per strumenti e supporti differenti.

Personalmente sono cresciuto con la riabilitazione alla parola, secondo una visione medica della sordità (malattia da curare e contenere), e mi sono avvicinato solo intorno ai vent’anni al mondo dei sordi segnanti, scoprendo con loro che la sordità poteva essere osservata da un’altra angolazione: quella di una vera e propria etnia che si riconosce nella lingua dei segni. Lingua molto difficile, che ho imparato, e che mi ha dato una sensazione di pace interiore e di restituita identità. L’amico Renato Pigliacampo, prematuramente scomparso, mi fece avvicinare a questo mondo con la sua passione e i suoi studi scientifici. Per tale ragione io credo che, nei limiti delle risorse, ciascuno debba poter scegliere se seguire un interprete che traduce in LIS il parlato, o se guardare i sottotitoli o se leggere direttamente il labiale. Nei limiti delle risorse, certo, ma anche nel rispetto dell’identità di ciascuno di noi.

La cosa più grande che mi ha colpito in questi giorni è l’emergere di voci inaspettate che considerano il riconoscimento della LIS non solo un patrimonio della comunità sorda, ma anche di tutte quelle persone – ovviamente con disabilità – che non hanno problemi di udito ma che non sono in grado di parlare: coloro che non sono sordi, ma che sono “muti”. Queste voci che si levano dal basso chiedono che la LIS sia per tutti coloro che ne hanno bisogno, compresa la possibilità di supporto degli interpreti anche per chi sordo non è. Parliamo di casi di autismo, ritardi cognitivi ed altro ancora. Questo mi ha fatto proprio sorridere: la civiltà non ha un traguardo, ma tante tappe da raggiungere giorno dopo giorno. E sapere che la Lingua dei Segni possa essere considerata non solo un’esclusiva dei sordi, chiude il famigerato Congresso di Milano come meglio non si potrebbe.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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