Oggi ho il piacere di intervistare un’amica, Valentina Dolciotti, conosciuta un paio d’anni fa nel corso di un meeting organizzato dalla British Chamber of Commerce for Italy nel quale ero relatore con Valentina. Si è instaurato fin da subito un fortissimo legame di scambio reciproco sulle tematiche legate alla Diversity & Inclusion.
Ciao Valentina, grazie di essere qui sul Blog di Jobmetoo. Raccontaci come è nata la rivista DiverCity e quale è stato il percorso professionale che ti ha portato a fondarla?
Innanzitutto, grazie mille per avermi dato questa opportunità, sono felicissima di raccontarmi a Jobmetoo.
Ho un percorso professionale non lineare, come spesso accade. Ho conseguito una laurea in Scienze dell’educazione con una tesi dedicata al teatro; per otto anni ho lavorato in ambito sociale con utenti psichiatrici, con adolescenti e con persone in età considerate di “passaggio”, approfondendo anche temi di uso/abuso di alcol e stupefacenti.
La svolta è stata la nascita di mia figlia che ha segnato, per me, un momento di cambiamento radicale. Diventare mamma mi ha tolto molto tempo, prima occupato dall’attività lavorativa e dalla grande passione per l’allora definita “questione femminile”. All’epoca infatti non si parlava di inclusione, ma di questione femminile, poi diventata questione di genere per poi, finalmente, trasformarsi nel macro tema dell’inclusione.
Da qui, la scelta di licenziarmi e di dedicarmi a tempo pieno a questi temi, convinta e determinata a fare in modo che diventassero la mia attività lavorativa a tempo pieno.
Così, mentre frequentavo a Roma il master in Diversity management ho iniziato a scrivere il libro “Diversità e inclusione. Dieci dialoghi con Diversity manager”, uscito poi per GueriniNext. La rivista DiverCity è nata, invece, come un’idea a sé stante, indipendente, con una vita completamente autonoma.
Confrontandomi con Tiziano Colombi, partner lavorativo e compagno di vita, ci siamo resi conto il ritmo fluido e veloce di un trimestrale avrebbe forse tenuto il passo con il processo di cambiamento che stava investendo la D&I.
Il motivo per cui la rivista è così trasversale sulle tematiche di Diversity & Inclusion da cosa nasce?
Non è mai stata mia intenzione “specializzarmi” su una diversità specifica, perché non credo – a differenza di altri – di essere la persona giusta nè avere le competenze necessarie per questo tipo di scelta.
Il mio primo interesse verso la diversità di genere è figlio degli anni in cui ero ragazza e, grazie anche alla collaborazione con la Libreria delle Donne di Milano, mi rendevo sempre più conto della grandissima disparità che c’era tra i due generi.
Ho capito, poi, che non volevo guardare il mondo esclusivamente attraverso quelle lenti perché – così facendo – mi sarei persa una serie infinita di altre diversità.
Con il tempo e confrontandomi sempre più con altre e altri – anche parlando con te in diverse occasioni – mi sono resa conto che le diversità si “moltiplicano” tra loro: un conto è essere donna, altro discorso è essere donna straniera, altro ancora è essere donna straniera con disabilità, e così via.
Occorre avere un approccio a 360° perché le diversità si intrecciano e sovrappongono tra loro. Sono molto felice dell’impostazione che siamo riusciti a dare alla rivista, mi piace tanto e, oggi, non potrei immaginarla con una forma e un’anima differente da questa.
Passando ora al tema della disabilità, cosa pensi che sia cambiato/stia cambiando nel mondo aziendale/HR nel mood e nell’approccio verso le persone con disabilità, rispetto al loro inserimento nel mondo del lavoro? A tuo avviso gli inserimenti avvengono solo perché c’è un obbligo di legge o c’è in atto un reale cambiamento rispetto alle competenze del candidato?
Questa domanda non è semplicissima, e voglio essere sincera nel rispondere.
Ritengo che sia in atto, sicuramente e finalmente, un cambiamento e voglio credere che si tratti di una trasformazione a lungo termine, non temporanea, perché sono stati compresi i veri motivi per cui includere le persone con disabilità rappresenta – effettivamente – e non solo formalmente un valore.
Rispetto a questo, sento di poter affermare che, soprattutto rispetto agli anni ’80 e ’90 quando, per fare un esempio, le persone con disabilità venivano assunte e messe a “fare fotocopie” ad oltranza senza tenere minimamente conto delle loro competenze e ambizioni, oggi abbiamo raggiunto la consapevolezza che esistono capacità e competenze in tutte le persone, al di là che queste possano avere o meno delle disabilità.
Può succedere che ci siano competenze e capacità non evidenti a un primo sguardo, ma se una persona viene inserita nel giusto ambiente, potrà riuscire a raccontarsi, a realizzarsi e avere la possibilità di “fiorire”. Questo vale per tutti/e.
Così possiamo davvero parlare di un inserimento win – win per entrambe le parti ed è chiaro che, quando accade ciò, le aziende acquisiscono nuove competenze.
Inizialmente avremmo voluto dedicare il numero di giugno della rivista al tema delle disabilità, poi ci siamo resi conto che – come dicevo – avevo poco senso. Per cui abbiamo deciso di dedicarlo alle skills proprio per mettere in risalto capacità e competenze indipendentemente da dove vengano.
Un esempio: un atleta paralimpico a cui manca una gamba correrà sicuramente i 100 metri più velocemente di me o di chiunque altro non abbia quella specifica competenza o talento.
Questo per dire che, se un soggetto viene messo nelle condizioni di far emergere il proprio talento, qualunque altra forma di disabilità o diversità dovrebbe passare in secondo piano.
Ho sempre cercato – nel mio piccolo – di orientare gli sforzi affinché nella rivista emergano questi punti di vista, spostando l’attenzione su parole e tematiche che vorrei cambiassero. Allo stesso tempo ritengo che i dipartimenti HR siano, all’interno del mondo aziendale, quelli forse più pachidermici (intendo lenti…) rispetto al cambiamento. Credo si tratti di un una questione di ruolo: ci sono persone che ricoprono un incarico da molto po’ di tempo – penso al middle management – che non hanno ancora fatto il salto innovativo necessario, non hanno cambiato forma mentis come, invece, si nota sia in molta della popolazione aziendale sia nelle prime linee, che finalmente spingono per un cambiamento.
So che hai partecipato ad un TED qualche tempo fa… vuoi raccontarci questa esperienza?
Esperienza tachicardica! Sono appassionata e divoratrice di TED e, quando mi è arrivata la proposta, non potevo credere che l’avessero proposto proprio a me, pensavo a uno scherzo.
Invece era vero.
Sono stata contattata dall’Ambasciatrice TED per l’Italia – che poi ho ospitato sul primo numero di DiverCity – per essere speaker ad un evento TED che avrebbe avuto luogo a Roma, da BNL, sul tema gender blurred, ovvero la “fluidità” di genere. Confrontandomi con Tiziano, ho pensato che avrei potuto parlare della giornalista Adele Cambria, nostra cara amica, che era venuta a mancare da poco e alla quale sentivo di dover rendere omaggio.
Questo ha reso l’esperienza ancor più emozionante: essere a Roma, dove lei viveva, parlare davanti a una platea di 300 persone ed essere allo stesso tempo in streaming!
Poter raccontare – attraverso la storia di Adele Cambria – di quanto il genere di un individuo sia ancora così rilevante e, allo stesso tempo, sognare il giorno in cui diventerà irrilevante e si parlerà semplicemente di persone, della loro storia, del loro background e delle loro talenti al di là di ogni forma di diversità.
Fino a quel momento, purtroppo, occorrerà continuare a puntare il dito contro ogni discriminazione.
Non mi resta che ringraziare – come sempre – Valentina per questa bella e ricca intervista. Personalmente penso che, sebbene siamo sulla strada buona per una effettiva e reale inclusione delle persone con disabilità e, più in generale, delle diversità, ancora troppo spesso siamo vincolati a stereotipi e luoghi comuni che non permettono di “vedere al di là”. Ci soffermiamo sulla prima immagine che vediamo. Il traguardo lo raggiungeremo solo quando, riprendendo le parole di Valentina, “il genere, così come tutte le diversità, diventeranno del tutto irrilevanti e si parlerà, semplicemente, di persone”.