Disabled woman in a wheelchair bowling

Ho ben nitido in mente un giorno d’estate di tanti anni fa, durante uno dei miei primi corsi di vela. Era una giornata bella e ventosa, noi allievi eravamo impazienti di navigare e l’istruttore ci chiamò alla lavagna per un ripasso prima di andare in acqua. Ma anziché pochi minuti, quel ripasso divenne una lezione di teoria che durò l’intero pomeriggio, fino a quando uscimmo esausti dall’aula.

Eravamo frustrati mentre disarmavamo quelle vele che, ormai, neanche battevano più: il sole stava calando e il vento era finito. Il nostro istruttore era stato chiaro: non potevamo continuare ad affrontare le onde se continuavamo a ripetere gli stessi errori. Dovevamo capire e interiorizzare alcuni insegnamenti, perché la teoria non fosse qualcosa di noioso e obbligatorio ma diventasse parte integrante della pratica.

In alto mare, infatti, non basta affidarsi all’istinto, occorre ricordare le lezioni alla lavagna perché in certi casi bisogna eseguire manovre del tutto controintuitive. Quel pomeriggio servì a farci capire questo.

Anche quando si parla di disabilità si deve parlare di teoria. Conoscere le ultime visioni sulla disabilità, elaborate attraverso un lungo processo, spesso duro e sofferto, è indispensabile per capire meglio il mondo in cui viviamo e il modo in cui le nostre azioni possono essere più efficaci.

Non è questo il luogo per dilungarsi sulle diverse concezioni che la società ha avuto della disabilità, e, aggiungo, pur essendo un addetto ai lavori e (anche) una persona con disabilità, non sarebbe compito mio. Anzi, dovrò operare delle necessarie riduzioni con l’obiettivo di rendere questi concetti quanto più comprensibili a tutti. È questo il luogo, e anche il momento, di mettere invece in evidenza alcuni aspetti che possono tornarci molto utili. Lo farò – in questo articolo – parlando del Modello Sociale della disabilità; mentre, nel prossimo, mi focalizzerò sulle parole di uno studioso della disabilità che trovo decisamente illuminanti e ispiratrici.

Nel corso del tempo, la visione della disabilità si è progressivamente spostata dall’individuo in sé – individuo con una menomazione – alla società di cui egli fa parte. Fino ai primi anni ‘80 prevaleva una visione medica della disabilità:

MENOMAZIONE > DISABILITA’ > HANDICAP

ossia

Deficit individuale > condizione di svantaggio individuale > condizione di svantaggio sociale

Come si vede, si tratta di processi consequenziali e unidirezionali (per agganciarci alle teorie, siamo nel filone del Modello Medico della disabilità).

Con l’affermarsi del Modello Sociale (nato nel Regno Unito verso la metà degli anni ‘70 e poi diffusosi in tutto il mondo) il paradigma si evolve così:

MENOMAZIONE < > DISABILITA’

Ossia

Deficit individuale < > possibile condizione di disabilità (causata dalla società)

Appare chiaro che nel Modello Medico c’è un rapporto esclusivamente consequenziale tra il deficit (fisico, sensoriale, mentale e così via) della persona e lo stato di svantaggio, in primis individuale e di conseguenza sociale.

In parole brutali: se la persona non si può “curare”, la società in cui vive non avrà spazio per lei.

Nel Modello Sociale invece, la linea deterministica diventa un rapporto di relazione in cui la parola handicap scompare, lasciando spazio ad una relazione tra lo stato oggettivo del soggetto e l’ambiente circostante (che può adattarsi o meno al soggetto interessato dal deficit).

L’handicap, inteso come svantaggio, dipende quindi dalla società e dal mancato adattamento di questa alla specificità degli individui. Proviamo a spiegarlo meglio.

Prenderò come esempio la mia sordità prelinguale – deficit di tipo sensoriale – ed il fatto che il mio audiogramma (esame in cui si misura quantità e qualità dell’udito) segnala una grave perdita uditiva.

Ciò premesso, vediamo come – una persona come me – può o meno interagire in due diversi scenari:

  1. Addetto al front office con contatto con il pubblico;
  2. Partecipante ad un convegno.

Considerato che la lettura labiale è – per una persona come me – indispensabile, si potrebbe ipotizzare che il primo contesto sia il più idoneo a questa condizione; mentre il secondo – in mezzo a molti partecipanti ed ai relatori che parlano lontano – il più sfavorevole.

Tuttavia se focalizziamo il fatto che, nel primo caso, un lavoro a contatto con il pubblico implica anche l’essere separati da un vetro, che riflette la luce e che non consente quindi di osservare bene il labiale, mentre un ronzio di fondo distrae e l’orecchio non è in grado di discriminare tra voci e rumori, ecco che questo contesto appare estremamente sfavorevole per chi si trova in una condizione come la mia.

Invece, la partecipazione ad un convegno – dove sebbene non vi sia posto a sedere in prima fila, vi è nella sala uno schermo con sottotitolazione in diretta oppure interpreti LIS (Lingua dei Segni) che traducono in simultanea – ecco che in questo secondo caso lo svantaggio è azzerato in quanto la persona è perfettamente integrata e partecipe del contesto in cui si trova.

Questo è il punto centrale: se è vero che una persona con disabilità porta con sé – nella strada della vita – un deficit che può migliorare o peggiorare (ad esempio, con l’impianto cocleare la mia condizione è migliorata, anche se la sordità è lì e non si muove), l’ambiente circostante gioca un ruolo cardine.

Se adeguatamente accessibile, quest’ultimo, consente infatti alla persona con disabilità di essere parte attiva del contesto di turno: dalla famiglia al lavoro, dallo sport ad una cena tra vecchi amici.

Il Modello Sociale della disabilità conosce, nelle sue versioni più integraliste, anche delle asperità dogmatiche che arrivano addirittura ad attribuire alla società tutte le responsabilità di una mancata integrazione.

In questo caso è deliberatamente ignorata la singola ed oggettiva condizione della persona, al punto che, le limitazioni incontrate dalla persona portatrice di un deficit, diventerebbero delle vere e proprie “discriminazioni istituzionalizzate”.

Formalmente ciò potrebbe apparire comprensibile, ma poi la vita pratica insegna che esistono molte sfumature che non appartengono né al bianco né al nero. Questo però lo lasciamo ai sociologi, ai docenti, agli studiosi in generale che contribuiscono, in ogni caso, a generare consapevolezza sul tema.

Quello che mi preme sottolineare è che il Modello Sociale ci spinge a ragionare in maniera controintuitiva, spostando l’attenzione dalla menomazione in sé, a tutto ciò che la circonda.

Del Modello Sociale deve essere preso il meglio, come per tutte le cose (non dimentichiamo che esso ha più o meno direttamente influenzato la stesura della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità), ed è fondamentale per capire l’importanza del rapporto dialettico che si instaura tra la persona con disabilità e il suo ambiente (quale che esso sia).

In altre parole, si ha l’evoluzione dello stesso modello verso uno ancora più completo, quello bio-psico-sociale, che approfondirò nel prossimo articolo.

Parlerò di Tom Shakespeare, celebre sociologo inglese e uno dei massimi studiosi mondiali di disabilità, che, con alcune riflessioni degne di quei grandi pensatori ci illuminerà sul tema. Pensieri, ovviamente, utili per tutti.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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