Uscirà nel 2021, e per questo l’Europa e i suoi organi sono già al lavoro, l’Agenda Europea sui Diritti delle Persone con Disabilità 2020-2030 (European Disability Rights Agenda), la road map che delineerà, per i prossimi dieci anni, le vite di cento milioni di persone con disabilità nel Vecchio Continente. Scrivo questo articolo nelle vesti di persona con disabilità, prima ancora che da addetto ai lavori.

Innanzitutto mi sembra indicativo il cambio lessicale da “strategia” (quella del decennio appena concluso) ad “agenda” (2020-30). Senza chiamare in causa l’Accademia della Crusca, è evidente che la parola “agenda” porta con sé un’impronta più profonda per queste tematiche. Se un tema è in “agenda”, la UE non solo ha un riferimento certo, ma deve anche rendere conto delle proprie azioni rispetto a tale documento (The EU will use the Agenda to guide their work. That means that if it is in the Agenda the EU commits to doing it: vedere l’approfondimento nel link successivo). D’altra parte, le persone coinvolte sono ben più di cento milioni, considerato che al numero dei disabili bisogna aggiungere quello di parenti, amici, colleghi. La disabilità è infatti una questione collettiva, molto più di quanto non si creda. L’EDF (European Disability Forum) ha recentemente indicato la strada da seguire; se i punti sono quelli classici e in fondo prevedibili (lavoro, istruzione, accessibilità, mobilità, non discriminazione, ecc.) è anche vero che avere questi obiettivi scritti a lettere chiare aiuta tutti noi prima a non dimenticarli, poi a cercare di raggiungerli. Molto interessante, tra le azioni concrete proposte, l’istituzione di una “unità CRPD” in seno alla Commissione Europea, unità che possa dare il suo contributo nell’effettiva applicazione della Convenzione ONU.

Personalmente, tendo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno e, se osservo me e la mia condizione di disabile oggi e la paragono a dieci o più anni fa, trovo delle notevoli differenze che sarebbe ingiusto non sottolineare. Intorno a me noto più attenzione, più sensibilità, più sportelli pronti ad accogliermi e preparati a relazionarsi con me; trovo molti più programmi con i sottotitoli; ho conosciuto tante persone che, venendo a contatto con la mia sordità, mi hanno anticipato prestando attenzione al movimento labiale prima ancora che lo chiedessi io. Sono azioni che si costruiscono quotidianamente, non sono appariscenti, ma esistono e sono capaci di cambiare il mondo. Se dovessi dirvi la verità, oggi mi sento molto più a mio agio, nella mia società, rispetto a dieci anni fa. E tutto questo è stato raggiunto nonostante, dopo un decennio intero, restino delle criticità dure da risolvere.

La trama più drammatica che ci avvolge, minacciosa come una ragnatela, è quella dell’impoverimento dovuto a quell’insieme di azioni (dispendiose) che servono per gestire e contenere la disabilità. Non deve stupire che la disabilità impoverisca: per questo si perde il lavoro, lo si deve lasciare o non lo si trova! Ma ai miei occhi appare ancora più insidiosa la minaccia che si nasconde nell’abbandono scolastico, che va solo a rendere meno evidente (ma più impattante nel lungo termine) il fallimento della vera inclusione.

Così, mentre leggo questi documenti, indispensabili per ottenere dei risultati (anche un 50% va bene, purché sia un reale miglioramento), mi viene in mente una cosa accaduta qualche anno fa: ero stato chiamato in una trasmissione televisiva per commentare un episodio di spiacevole discriminazione che aveva avuto come protagonista un bambino disabile, di fatto escluso da una gita scolastica. Ricordo di aver detto che io, di gite con la scuola, non me n’ero persa una. Anzi, i miei amici facevano a gara per dormire con me in quanto, con il silenzio della mia sordità, non li avrei mai potuti sentire di notte quando uscivano di nascosto. Insomma, ero un (involontario) complice perfetto! E anche se lo sapevo, sentivo molto il loro affetto nei miei confronti, tanto si preoccupavano per me e mi erano sempre vicini. Qualche presa in giro era, in fondo, un segno di questi valori. In un’epoca in cui tutto è ormai asservito a dati, numeri, indicatori di performance (giustamente richiesti anche nella disabilità), il primo ingrediente perché cento milioni di persone possano vivere sempre meglio è il nostro modo di considerarli. E se – comprensibile – alla parola “disabilità” si associa il timore dei “costi”, proviamo a renderci conto che cento milioni di persone che restano indietro, anche economicamente, hanno un impatto non da poco sull’Europa: sui suoi conti e sul suo spirito.

Condivisioni
Articolo precedenteIl processo di selezione
Prossimo articoloPRESS-IN, una lettura lunga tutto l’anno
Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here