Collocamento_mirato_monza

Spesso mi capita ancora, lo ammetto: qualcuno, a proposito degli operatori del Collocamento mirato, non spende parole lusinghiere. Mi sento in difficoltà, perché se è vero che la Legge 68 non mi è stata d’aiuto (avrò svolto quattro o cinque colloqui e niente di più in quindici anni), è anche vero che ho conosciuto molti professionisti e non mi sembra giusto che non vengano considerati come invece meriterebbero, per l’impegno e la passione che impiegano per far incontrare aziende e candidati. Vorrei, in questa intervista, dare spazio proprio ad uno di questi operatori, Gianpaolo Torchio, referente della Provincia di Monza e della Brianza per il collocamento Mirato e la legge 68/99, che ho incontrato diverse volte e, ogni volta, ci siamo lasciati con un senso di soddisfazione per esserci confrontati in modo appassionato, aperto e leale (oltretutto siamo entrambi laureati in Scienze Politiche!).

Innanzitutto grazie di aver accettato questa intervista! Parlaci di te!

A cavallo con la fine del corso di Scienze politiche ho fatto alcune esperienze di ricerca sociale, essenzialmente intorno al tema del carcere. Poi, nello stesso ambito sono diventato operatore, tutor e orientatore, in progetti all’interno dei penitenziari o dei percorsi di messa alla prova dei minori che avevano commesso reati. Ho poi continuato gli studi con un master in sociologia sullo “Sviluppo locale e qualità sociale”, che mi ha portato in stage all’ex ospedale psichiatrico di Trieste dove ho conosciuto le importanti esperienze nate dal lavoro di Basaglia.

Occuparti del lavoro delle persone con disabilità è stato un caso o una scelta voluta?

Ho avuto la fortuna di entrare al collocamento di Milano nei primi mesi di applicazione della legge 68/99 e di vivere una esperienza di trasformazione istituzionale che mi ha appassionato. Avevo incrociato la disabilità facendo un po’ di volontariato al Centro Socio Educativo del paese dove vivevo e spendendo uno splendido anno di servizio civile al lavorando per persone con disabilità molto gravi. Ma non credevo che sarebbe mai stata la mia professione.

"Bisogna raccontare una storia diversa", afferma Torchio
“Bisogna raccontare una storia diversa”, afferma Torchio

Ci siamo incontrati diverse volte e, ogni volta, usciti arricchiti dallo scambio d’idee. In più di un’occasione hai rimarcato il fatto che le statistiche sul tasso di disoccupazione dei disabili non sono completamente attendibili. Vuoi spiegarci il tuo punto di vista e i dati in tuo possesso?

Su quante persone con disabilità lavorino, quante siano invece siano disoccupate girano i dati più diversi. Ancora recentemente, in un articolo su un’importante testata giornalistica si riportava che solo il 3,5% delle persone con disabilità avrebbe accesso al lavoro. Questo dato deriva da una ricerca ISTAT di circa 10 anni fa e di per sé non è sbagliato. Ma si dovrebbe aggiungere che è costruito analizzando l’intera popolazione delle persone con disabilità, popolazione che è composta per quasi la metà da ultraottantenni e per più del 60% da persone in età da pensione. Perché spesso si diventa disabili in età avanzata, quando si è già finita la propria vita lavorativa. Cosa ci può dire sulle vere possibilità di lavoro di una persona con disabilità che si affaccia al mondo del lavoro? Ultimamente sento, invece, citare frequentemente il fatto che l’80% delle persone con disabilità è disoccupato. Questa percentuale è ricavata da una ricerca più recente e sicuramente più accurata, che ci dice che solo il 20% di chi ha disabilità gravi e gravissime ed è in età lavorativa è occupato. Si tratta però di un campione molto ristretto, dove circa una persona su due è ritirata dal lavoro o riconosciuta inabile allo stesso. Le ricerche ISTAT e EUROSTAT disponibili, ma che non sento mai citare, pongono il tasso di occupazione delle persone con disabilità in età lavorativa intorno al 45%. Un dato più basso di 10-15 punti rispetto al totale della popolazione, ma che rappresenta quasi la metà delle persone con disabilità del nostro paese. E’ un dato “che torna” con quelli a nostra disposizione. Nella Provincia di Monza e Brianza, dove lavoro, più della metà delle persone con disabilità in età lavorativa che si sono iscritte alle liste del collocamento mirato negli ultimi 15 anni, sta oggi lavorando. Questi dati ci dicono che dobbiamo fare ancora molto per il diritto al lavoro delle persone con disabilità, ma che non partiamo da zero.

Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro e quale quello più gratificante?

Credo che la nostra attività, mia e dei colleghi che perseguono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, possa essere ricca e stimolante. Ogni posto di lavoro occupato non è una mera cifra nel conteggio degli obblighi di assunzione, ma è una persona che ha conquistato un pezzo di autonomia, un tassello di progettualità per la propria vita e, forse, di realizzazione. Dedicarsi a questo, per le persone che più facilmente dal mondo del lavoro vengono escluse, vale una vita professionale. La parte difficile è che spesso ci si trova tra l’incudine e il martello…. Il martello di centinaia o migliaia di persone che ti chiedono lavoro e l’incudine di un sistema produttivo che ancora non è uscito dalla crisi, che fatica a creare lavoro e occupazione. Oppure che cerca, per crescere, esperienze e competenze lontanissime da quelle delle persone iscritte nelle nostre liste. La parte alle volte insopportabile è di non avere risposte disponibili per alcune persone che bussano alla porta dei nostri servizi con bisogni veri, con la necessità di ritrovare un reddito per il sostentamento proprio e della propria famiglia.

Per la tua esperienza cosa manca ancora alle Aziende per considerare il lavoratore con disabilità un lavoratore al pari degli altri?

Il mondo delle aziende è molto diversificato, non farei un discorso unico. Esistono casi di integrazione lavorativa eccellenti, che siano piccole imprese dalla gestione e dall’approccio familiare, oppure multinazionali con politiche articolate di disability management. In altri casi, è invece vero che esiste molta diffidenza se non vero preconcetto, spesso determinato da visioni stereotipate della disabilità. Se devo trovare una regola generale, direi che l’integrazione della disabilità sia un problema praticamente insormontabile per tutte quelle aziende che pretendono di avere lavoratori tutti uguali, pezzi stampati di un meccanismo preordinato. La disabilità, invece, non è quasi mai un problema nelle realtà coscienti di camminare e produrre su una collettività di individui, ognuno con le proprie caratteristiche. In queste imprese la disabilità è percepita come una delle differenze da gestire. Alle volte complessa, ma non necessariamente più di altre.

Perché un disabile non riesce a fare carriera con facilità secondo te?

Ci sono bellissimi esempi di successo di persone con disabilità. Nello sport abbiamo imparato a conoscere atleti paraolimpici straordinari, ma anche nelle arti e nella vita professionale ci sono persone che hanno fatto molta strada malgrado, o forse insieme, alla propria disabilità. La tua stessa storia Daniele, ne è una testimonianza. E’ però innegabile che una parte rilevante delle persone con disabilità, soprattutto se assunte per obbligo di legge, è sottoccupata e non abbastanza valorizzata. E’ un problema culturale. Una persona, una volta assunta, diventa necessariamente una risorsa per l’impresa: che senso ha non valorizzarla per la sua disabilità, per il suo limite? Anzi, se riconosciamo la sfida quotidiana che questa persona affronta per vivere con questo limite, forse sapremmo cogliere meglio il contributo che può dare alla crescita dell’organizzazione in cui è.

Una tua frase che mi ha colpito: “Dobbiamo raccontare una storia diversa”. Di quale storia parli?

Credo che ci si debba raccontare la storia del gran numero di persone con disabilità che tutti i giorni lavorano nelle imprese, nei servizi pubblici, nelle istituzioni del nostro paese. Sono dipendenti, autonomi, professionisti. Sono occupati nelle quote di riserva della legge, oppure no. Se partiamo da qui, da questa enorme esperienza, avremo maggiori possibilità di affrontare con successo la difficoltà, alle volte il dramma, di chi somma alla disabilità la disoccupazione involontaria. Sono invece sempre più convinto che la ripetuta conferma di stereotipi negativi sulle persone con disabilità e il lavoro sia nociva e lasci danni permanenti. Per esempio, se ci ripetiamo che solo una quota risibile di persone con disabilità lavora, malgrado quasi 50 anni di normativa di tutela, perché dovremmo insistere? E perché io, datore di lavoro, devo essere l’unico ad assolvere ai miei obblighi di assunzione di persone con disabilità se la legge non è applicata, visto che così pochi sono occupati? Per questo, quando sento ripetere cifre inutilmente sconfortanti, quando ci si concentra solo sulla parte vuota del bicchiere, credo che si faccia un torto a tutte le persone con disabilità e si allontani l’obiettivo della vera e completa integrazione.

Un progetto di cui vai particolarmente fiero?

Sono fiero del fatto che in Provincia di Monza e Brianza abbiamo mantenuto negli anni un sistema di valutazione delle capacità delle persone con disabilità qualitativo, che sia affianca alla normale attività amministrativa. La banca dati qualitativa (chiamata Match) la usiamo quotidianamente per incrociare le disponibilità di posti di lavoro con le caratteristiche delle persone iscritte, per trovare il miglior incontro tra domanda e offerta di occupazione. Ma soprattutto ci serve per poter tener traccia delle persone per quello che sono: nelle loro storie di studio, professionali, di disabilità, nelle loro capacità e nelle loro aspirazioni. Stiamo lavorando con le altre province lombarde perché questa nostra esperienza, fusa con esperienze di servizi provinciali come il nostro possa diventare un patrimonio comune.

Un’intervista molto bella, che leggerò e rileggerò: Gianpaolo è una persona che conosce bene il suo mestiere e che possiede una gande sensibilità, che utilizza nel modo più giusto. Vi lascio con questa sua frase: “Una persona, una volta assunta, diventa necessariamente una risorsa per l’impresa: che senso ha non valorizzarla per la sua disabilità, per il suo limite? Anzi, se riconosciamo la sfida quotidiana che questa persona affronta per vivere con questo limite, forse sapremmo cogliere meglio il contributo che può dare alla crescita dell’organizzazione in cui è“.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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