L’aumento dei contagi a cui abbiamo assistito (e a quanto pare i malati di Covid sarebbero più di quelli ufficiali), insieme all’abbassamento dell’età media, dimostra che questo virus, duro a morire, si avvicina all’autunno più che preparato. Noi forse meno. E se aver esagerato con gli assembramenti che è, a mio avviso, in fondo comprensibile (non giustificabile, ovvio, ma comprensibile), avvicinarsi ai rientri scolastici e lavorativi (questi, invero, già iniziati) senza una strategia chiara lo è sicuramente meno: dalla scuola al lavoro, dallo spettacolo ai convegni, passando per lo sport e le fiere, cosa ci aspetterà nel futuro a breve e medio termine?
Ecco, noi esseri umani che abbiamo imparato a controllare tutto non siamo più in grado di vivere senza poterlo esercitare, senza un’adeguata programmazione di macro e micro attività. È giusto: un coerente sviluppo economico e sociale richiede stabilità e certezze politiche, finanziarie e sociali, perché si possa costruire, mattone su mattone, il nostro progresso.
Questo Covid ci ha spiazzato, facendoci diventare, tra l’altro, dei campioni (improvvisati) di smart working, strumento che fino a poco tempo fa non era così diffuso né conosciuto in Italia. Se siamo più che bravi ad adattarci – come qualsiasi animale programmato per la sopravvivenza – non lo siamo però per gestire l’incertezza. In altre parole, l’antropologia ci insegna che, da sempre, l’uomo è molto più bravo ad affrontare i problemi che a prevenirli. Un esempio pratico è l’Earth Overshoot Day, che cade proprio in questi giorni (lo scorso anno era a luglio): il Pianeta Terra ha esaurito le sue risorse annuali ma non mi sembra che questo desti eccessiva preoccupazione. Ovviamente quando in un prossimo febbraio avremo esaurito le risorse annuali, questo diventerà un problema e allora lo affronteremo…
Tale incertezza sul futuro, che nonostante la voglia d’estate riesce ad insinuarsi nei nostri più reconditi pensieri, è ben descritta in questo articolo della Società Italiana di Medicina del Lavoro, che spiega come, il rientro al lavoro dei lavoratori cosiddetti “fragili”, non sia così semplice da gestire. Il punto centrale sta nella possibile disparità di trattamento tra quei lavoratori “fragili” che possono svolgere il loro lavoro in modalità agile e coloro che, per la natura della loro mansione, non possono farlo. Arrivo subito alla conclusione: alla fine si troverà una soluzione (è un problema, e l’uomo, come abbiamo detto, è più che bravo ad affrontare i problemi) anche se (vado a naso) la maggior parte del lavoro se lo sobbarcheranno i diretti interessati: il lavoratore e l’azienda.
Detto questo, vorrei soffermarmi su quello che, a mio avviso, è il punto centrale di questa discussione: il potere della disabilità di offrire/imporre nuove soluzioni, nuovi traguardi. Se è vero che i portatori di interessi che hanno una disabilità sono una minoranza (cospicua, ma minoranza), è altresì vero che le soluzioni pensate per questa minoranza vanno poi a riverberarsi sull’intera collettività.
Pensiamo al telecomando, che oggi tutti utilizziamo ma che è nato come supporto per le persone con disabilità ridotta, o ai sottotitoli, ideati per i deboli di udito ma utilissimi anche per chi sente e si trova in un luogo rumoroso come una stazione. Anche questa volta, il doversi confrontare con esigenze specifiche che la condizione di disabilità impone ci consentirà di raggiungere nuovi traguardi, per l’utilità di tutti. Se non lo dimentichiamo, saremo già sulla buona strada: quella delle soluzioni che si anticipano e non dei problemi che si devono risolvere.