Alessia Bottone e Valentina Bazzani alla presentazione di
Alessia Bottone e Valentina Bazzani alla presentazione di "Vorrei ma non posso"

Verona: la città di Romeo e Giulietta, affascinante, ricca di arte, storia e magia.  Pensate che bello girare per le sue strade, assaporarne la bellezza, concedersi una pausa in un bar o fare shopping nei negozi del centro… Ma Verona è accessibile per chi ha problemi di mobilità? A questa domanda hanno provato a rispondere Alessia Bottone e Valentina Bazzani, rispettivamente autrice/regista e protagonista “seduta” del documentario “Vorrei ma non posso: quando le barriere architettoniche limitano i sogni“, che descrive una giornata di Valentina, giornalista con disabilità, in giro per la sua città, Verona per l’appunto, tra barriere architettoniche e non solo.

 

Vorrei ma non posso” è stato presentato a settembre e, da allora, l’hanno visto migliaia di persone. Ho deciso di mettermi in contatto con Alessia e Valentina per farmi raccontare direttamente da loro com’è nato questo interessante (ed utilissimo!) progetto.

-Com’è nata l’idea di “Vorrei ma non posso”? 

ALESSIA – Mi occupo da tempo, anche per lavoro, di diritti umani ed esperienze familiari mi hanno portato ad essere  particolarmente sensibile a temi quali autonomia e accessibilità riferiti alle persone con disabilità. Due anni fa, ho presentato una bozza del documentario al premio per Giovani Giornalisti Massimiliano Goattin, ottenendo un finanziamento che mi ha consentito di passare all’azione. Nel frattempo, ero entrata in contatto, attraverso Facebook, con Valentina, leggendo un suo post sull’ennesima discriminazione in ambito lavorativo che lei aveva subito. Dal virtuale, siamo presto passate al reale (viviamo entrambe a Verona e questo ci ha facilitato le cose) e abbiamo iniziato a girare il documentario, con la collaborazione di Elettra Bertucco, che ha realizzato le riprese.

-Qual è stata la difficoltà più grossa che avete dovuto affrontare durante la realizzazione di “Vorrei ma non posso”? 

VALENTINA – Barriere architettoniche di ogni tipo: dai gradini che, per chi come me si muove su una sedia a rotelle e ha un’autonomia molto limitata, rappresentano un limite spesso insuperabile, alla mancanza di scivoli sui marciapiedi o di pedane (anche rimovibili) per accedere a negozi ed esercizi pubblici. Per non parlare, all’interno dei negozi d’abbigliamento, della mancanza di camerini con porte scorrevoli, che, di fatto, obbligano chi è su una sedia a rotelle a provare i vestiti davanti a tutti, con buona pace della privacy… Ma, soprattutto, le barriere culturali: stereotipi e cliché sulle persone con disabilità sono ancora troppo radicati nel nostro Paese.  Il nostro sogno è quello di una vita alla pari, perciò a tutti vanno garantiti gli stessi diritti ed opportunità, perché ciascuno possa mostrare risorse, peculiarità e potenzialità. Purtroppo, in questo momento, non è così.

-Com’è stato accolto “Vorrei ma non posso”? Come reagiva la gente, mentre giravate?

A. – Durante le riprese, per non condizionarle, non abbiamo fatto riferimento al documentario con le persone coinvolte. Ovviamente, ne abbiamo pixelato i volti, per rispettarne la privacy. Per il documentario c’è stata un’accoglienza che, francamente, mi ha sorpresa: in genere, quando si affrontano questi temi, ci si ritrova (purtroppo) in pochi. Invece, sia durante la presentazione che in questi mesi, abbiamo notato un grande interesse verso il tema che abbiamo affrontato: segno che qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta? 

-Cosa manca ancora per raggiungere la piena accessibilità, vale a dire spazi urbani pensati per adattarsi alle esigenze di tutti i cittadini (inclusi quelli con disabilità motorie – su sedia a rotelle e non- o sensoriali)?

V. – In questo momento,  per arrivare alla piena accessibilità manca, da una parte, il buon senso anche durante la fase della progettazione, lo sforzo di pensare agli spazi anche nell’ottica delle persone con disabilità o, ove possibile, di coinvolgerle direttamente. Ma anche la volontà, da parte delle istituzioni, di creare ambienti veramente accessibili a tutti, almeno negli spazi pubblici. Molto è stato fatto, ma molto resta da fare. Come persone con disabilità, possiamo continuare a sensibilizzare e diventare “protagonisti attivi”, mostrando che, con il nostro impegno e le nostre risorse, possiamo fare una vita normale. Non è semplice, soprattutto quando, a causa della propria condizione, si dipende dall’aiuto altrui. Ma è necessario.

-Cos’è cambiato dopo l’uscita del documentario, a Verona? 

A. – Verona è stata una delle prime città italiane ad adottare il PEBA, il Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche. Certo, il passaggio dagli intenti all’applicazione pratica è più lento di quanto vorremmo e le ambiguità normative non aiutano: per esempio, il paradosso per cui, per dotare il proprio esercizio commerciale di pedana rimovibile si debba pagare una tassa per applicazione di suolo pubblico è, quanto meno, un controsenso, no?

-Quanto incidono le problematiche legate all’accessibilità sulla piena inclusione (sociale e lavorativa) delle persone con disabilità?

V. – Alle superiori, pur essendo più portata per le materie scientifiche, ho scelto un istituto tecnico perché era l’unico accessibile. Negli anni, le cose sono migliorate: la società è più inclusiva e c’è anche una crescente attenzione per gli spazi, perché siano accessibili e accoglienti. La difficoltà maggiore è ancora, prevalentemente, culturale: non è accettabile, nel 2017, che una persona con disabilità, professionista con un curriculum di tutto rispetto, sostenga infiniti colloqui e venga scartata solo a causa della propria disabilità! Tante sono state le battaglie per condurre una vita normale, studiare, laurearmi con il massimo dei voti, fare esperienze lavorative (a titolo gratuito) e poi mi vedo scartata? No, non ci sto. È veramente possibile una vita alla pari, piena e meravigliosa. Ma è necessario che istituzioni, associazioni facciano rete e facciano cultura, per creare una società veramente inclusiva.

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