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Fa un certo effetto leggere notizie come queste: in un’anticipazione della sua biografia, il grande campione di calcio André Iniesta, spagnolo, confessa di aver trascorso un periodo molto buio in cui “…il mio corpo e la mia mente non si incontrano, si allontanano. Niente ti dà più dolore che non sapere quello che hai: forse qualcuno leggendo pensa sia una sciocchezza o forse altri si identificano in quello che dico. Tutto quello che so è che è angosciante: la palla diventa ogni giorno più grande, ti senti male e la gente intorno a te non capisce. E l’Andrés che tutti conoscono resta vuoto dentro. È dura, molto dura”.

Bisognerà attendere la biografia per conoscere meglio i dettagli, ma le prime riflessioni sorgono naturalmente, con forza ed evidenza.

Dire, quasi con una sottile soddisfazione, o per meglio dire liberazione, che un disagio psichico non risparmia nessuno, sarebbe riduttivo. A mio avviso la sfera (non quella calcistica, ma dell’equilibrio dell’uomo) va capovolta: indistintamente, tutti possiamo conoscere un periodo buio nella nostra vita. E sono rimasto favorevolmente colpito dalla maturità degli utenti dei vari social che, lungi dal liquidare la vicenda con superficialità o peggio, come talora purtroppo accade, hanno fatto sentire tutta la loro partecipazione. In molti commenti, addirittura, era evidente la conoscenza del problema della depressione: utilizzando termini specifici, gli utenti hanno dimostrato di conoscere la questione in modo sufficientemente approfondito.

La seconda riflessione è più sportiva-professionale. In questo periodo buio, Iniesta ha continuato a svolgere il suo lavoro, vincendo ovunque e incantando i tifosi di tutto il mondo con le sue giocate sopraffine. Ha lavorato anche se non era in condizioni interiori ideali. Ebbene, mi chiedo, quanti “Iniesta” abbiamo tra i lavoratori disabili che potrebbero performare al massimo delle loro possibilità? Sicuramente molti, e noi di Jobmetoo questo lo sappiamo bene. L’invito che rivolgiamo alle Aziende e non soltanto, quindi, è quello di ampliare la prospettiva: non si “deve” assumere un lavoratore con qualche forma di disagio per obbedienza alla legge, ma assegnare con consapevolezza la maglia da titolare ad un potenziale campione che, con le sue giocate, garantirà il successo dell’azienda.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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