Conosco Nadia Luppi da molti anni, ci incontrammo ad Handimatica a Bologna, eravamo vicini di stand (io con la versione beta di Jobmetoo) e, subito, entrammo in una dimensione di sintonia.

Ciao Nadia e ben trovata! E grazie per aver accettato la nostra intervista. Presentati per i lettori di Jobmetoo!

Ben trovati a tutti e grazie per questa occasione di incontro, virtuale e reale al tempo stesso. Di me posso dirvi che sono orgogliosamente emiliana e che sono sempre in cammino, anche quando sembro immobile. Mi piace dire che per missione “costruisco ponti”, nel senso che amo tutto ciò che è rivolto all’incontro con l’altro, con il diverso, con quel che sembra distante ma che può rivelarsi non solo vicino, ma anche prezioso – se solo ci fermiamo ad ascoltare, a comprendere, a capire come funzioniamo noi e come possiamo funzionare insieme. È il processo che sta alla base del buon vivere, della buona vita di comunità, ma anche della buona inclusione lavorativa.

Sei una persona molto attiva nel mondo associazionistico e nel sociale, mondi di grandi battaglie e di conquiste lente. Dove trovi la tua forza?

Sono cresciuta in una terra di grandi battaglie sociali per i diritti e per la libertà per cui posso dire, fuor di metafora, che è dalla mia terra e dalle mie radici che traggo la forza per ideare progetti e “immaginare ponti” tra le persone e le organizzazioni. È altrettanto vero che non è facile ed è per questo che le cose più belle che ho fatto, e che farò, sono, e saranno, frutto di un impegno e di uno spirito di servizio condiviso. I miei genitori mi hanno dato un nome che riporta al concetto di speranza e spesso mi si rimprovera di peccare di utopia. Può sembrare ironico dirlo visto che vedo pochissimo, ma so che ho la capacità di guardare oltre. A volte la lentezza con cui le cose cambiano mi scoraggia… ma mai fino al punto di arrendermi!

Sei anche Counselor, spiegaci l’importanza di una professione di questo tipo anche in ottica aziendale.

La preparazione come Counselor nel mio caso si intreccia alla filosofia e alle scienze sociali ed è stata un’ulteriore e preziosa occasione di conoscermi e di potenziare le mie capacità di ascolto e di comprensione dei fenomeni umani. Vedi Daniele, io credo che a volte basterebbe fermarsi, fare silenzio per poter ascoltare e poi, nel caso, porre una domanda.  E, invece, abbiamo dovuto sentirci costretti alla solitudine per capire quanto valesse l’incontro con l’altro, e chi non si è dato tempo di fermarsi forse non lo ha ancora chiaro.

In altri termini credo che, ad oggi, troppo spesso nel mondo del lavoro manchi l’attenzione necessaria a quello che definiamo “capitale umano”. Quando si comprende che il benessere delle persone che lavorano può coincidere con  la loro produttività,  quando si porta l’attenzione alla persona coi suoi  talenti e si accolgono i limiti, perché ci si impegna a conoscerli e a cercare insieme le risorse che vi si nascondono, allora ne beneficia tutto il sistema. Avere figure professionali che a questo guardano e di questo si occupano serve a garantire spazi e tempi di benessere e nutrimento per chi è chiamato a dare il proprio meglio nel posto di lavoro.

Il fatto che in certi contesti si faccia ancora così tanta fatica a parlare di inclusione lavorativa dei disabili e che spesso si assumano lavoratori in virtù degli obblighi normativi senza poi includerli realmente, la dice lunga sul fatto che nel mondo del lavoro siamo ancora poco disponibili a vedere l’altro come persona e non solo come portatore di profitto. Ciò non significa dimenticarsi dei limiti, ma comprenderli e ri-comprenderli nel sistema.  E’ un processo delicato e se da un lato giocano le insicurezze personali del lavoratore che si propone coi suoi limiti, dall’altro le aziende non sono adeguatamente sostenute nella transizione. Assumere una persona che viene da lontano,  che non parla bene la lingua ed è fedele ad una religione che non conosciamo, può fare paura. Altrettanto accade con diversità come quelle relative al gender (pensiamo a casi di omofobia strisciante o alla difficoltà estrema con cui i transgender trovano lavoro) possono rappresentare degli elementi critici per il clima di squadra se non vengono compresi e capiti.  Allo stesso modo, quando ci si trova davanti all’obbligo di assumere una persona con disabilità, ci si sente smarriti. Incontrarsi non è mai scontato soprattutto nel mondo del lavoro, figurarsi se ci si mette in mezzo la diversità o banalmente la fragilità che per altro è un tratto umano di cui siamo tutti portatori ma che spaventa sempre un po’.

Per questo, ogni azienda dovrebbe poter contare su personale interno o su consulenti che  portino esperienza e competenza in materia e la ricerca dei migliori accomodamenti. I benefici sarebbero evidenti – ca va sans dire – per tutti, non solo per i lavoratori più o meno “diversamente fragili”.

Parliamo di modelli teorici della disabilità: quanto ti senti disabile e quanto “disabilitata” da una società che non è del tutto accessibile?

Al di là delle diatribe terminologiche, personalmente ho impiegato diverso tempo a riconoscermi come facente parte della categoria (ammesso e non concesso che esista) dei disabili. Con la consapevolezza di oggi ripeto una frase, a chi mi chiede aiuto per il suo percorso personale, così come la ricordo a me: avere una disabilità non coincide necessariamente con l’essere disabili e tanto meno col sentirsi tali. È  innegabile che io abbia una disabilità anche piuttosto importante: l’abilità di vedere come la maggior parte degli esseri umani la posseggo solo per uno scarso 1%. Questo impone che certe azioni, scontate ad altri, per me siano da reinventare o risultino impossibili. Questo significa avere una disabilità. Se ampliamo lo sguardo – e non lo dico a caso – e parliamo di limiti, ditemi chi tra gli esseri umani non è in qualche modo disabile anche un po’… diciamocelo in modo volutamente provocatorio: handicappato?  I limiti fanno parte di noi tutti, se non riusciamo a giocarci diventa un problema, prima individuale e poi sociale e di fatto culturale.

Come trascorri il tuo tempo libero?

Ho imparato solo di recente a oziare e a riposarmi, e purtroppo è successo spesso che mi concedessi spazi di recupero solo quando era già tardi. Quel che mi ricarica di più in assoluto sono i buoni incontri e il trascorrere tempo in mezzo alla natura. Trascorrere tempo di qualità con le persone a cui voglio bene e che sento vicine, mi fa sentire parte di una rete di anime che sanno camminare insieme e che si riconoscono come parti di un cammino comune. D’altra parte, camminare in mezzo alla natura, annusare fiori e piante, toccare il tronco degli alberi e sentire come cambia l’energia dell’aria sulla pelle, a seconda che ci sia il sole o che piova o che tiri il vento, osservare i miei passi tra le pozze invisibili lasciate dal temporale o sul sentiero  nel sottobosco, mi aiuta a conoscermi meglio e a lasciare andare il peso delle sfide quotidiane. Non si tratta di passatempi scontati soprattutto di questi tempi, ma c’è di buono che la vita una strada la trova sempre.

Nadia non è la prima né l’ultima persona che popola il nostro Blog, e quando penso che, tutti loro, le e li conosco personalmente, mi rendo conto di quanta ricchezza io abbia potuto beneficiare, di quanti “ponti”, per dirla con Nadia, sono stati costruiti in questi anni. E penso anche una cosa che dovrebbe far riflettere chi non ha una disabilità: la gestione del tempo. Alle persone con disabilità è richiesto, per la loro condizione, un tempo maggiore di esecuzione, ma la sensibilità e l’intelligenza critica che spesso abbiamo, le dobbiamo forse proprio alla nostra condizione di svantaggio.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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