boy in wheelchair doing homework
disabled boy in wheelchair doing homework

Perché parlare di tabù pensando all’inclusione a scuola? Nella scuola di oggi il termine “Inclusione” è divento ormai parte di un linguaggio condiviso: il concetto si è diffuso, e costituisce parte fondante degli obiettivi che tutte le scuole devono porsi di raggiungere. Con la Direttiva Ministeriale del 2012 (“Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”), è stato infatti sancito formalmente il diritto per tutti gli alunni che presentano bisogni educativi speciali (ossia particolari condizioni di difficoltà dovute a disabilità, disturbi specifici, svantaggio sociale culturale o linguistico), di avere pieno accesso agli apprendimenti e quindi di poter usufruire di una didattica personalizzata, diversificata sulla base delle esigenze individuali e degli obiettivi formativi. La finalità, sottolineata dalla direttiva, è quella di “accrescere la consapevolezza dell’intera comunità educante sulla centralità e la trasversalità dei processi inclusivi”, allo scopo di migliorare la qualità dei risultati educativi e creare le condizioni per cui ogni alunno e ogni membro di una comunità, possa essere valorizzato per le proprie caratteristiche e possa partecipare in modo pieno e soddisfacente alla vita scolastica.

Ma allora perché parlare di tabù, se il valore dell’inclusione viene generalmente condiviso e perseguito a scuola? Perché benché si concordi sull’importanza di perseguire la valorizzazione delle differenze e sulla rilevanza della piena partecipazione di tutti gli alunni alla vita scolastica, nelle situazioni reali, che quotidianamente vengono vissute nel contesto scuola, emergono spesso ostacoli e resistenze, anche involontarie o inconsapevoli, che bloccano il raggiungimento dell’obiettivo. Questa difficoltà, l’ho potuta osservare spesso nel mio lavoro come psicologa scolastica, nel confronto con insegnanti, famiglie e ragazzi, dove ho costatato che esistono tabù e paure ricorrenti che frenano l’inclusione.

Partiamo ad esempio da alcune domande frequenti che mi sento porre dagli insegnanti:

“Come comunichiamo alla classe che un compagno è dislessico o che ha una problematica? Dobbiamo parlarne o è meglio di no?”

Oppure

Come giustifichiamo alla classe che un compagno può usufruire di misure compensative/dispensative? I ragazzi vedono queste “agevolazioni” come un privilegio di cui loro non possono usufruire e di conseguenza sentono di vivere un’ingiustizia”.

Di contro i genitori spesso mi chiedono: “Non vogliamo che in classe si sappia che nostro figlio ha questa difficoltà…Lo escluderebbero, cosa possiamo fare per non farlo sentire diverso?

A queste domande rispondo: “Se uno dei vostri alunni/se vostro figlio, non vedesse bene e avesse bisogno di un paio di occhiali e di essere spostato nelle prime file per leggere meglio la lavagna, vi porreste lo stesso problema?”. Certo che no…. Questo rappresenta una condizione comunemente accettata dalla comunità: è considerato “normale” indossare un paio di occhiali quando la vista non è ottimale, e non ci porremmo mai il problema di dover giustificare questa necessità agli altri e o di essere esclusi per questo motivo. Ma allora perché quando parliamo invece di altre problematiche diventa invece un problema giustificare alla classe che un ragazzino possa leggere usando il pc, o che un compagno con deficit nella motricità, possa essere esonerato dai compiti scritti? Perché se parliamo di problemi di vista nessuno si scandalizza nel dire che quel ragazzino è miope, ma se parliamo di autismo, di dislessia, di problematiche psichiatriche diventa così difficile discuterne?

Perché è ancora una questione di tabù!

Inconsapevolmente infatti tendiamo a seguire “il paradigma della normalizzazione” quando ci scontriamo con la disabilità e con le differenze: senza rendercene conto vediamo ancora la diversità come un problema, come un ostacolo da appianare, come una condizione che dovrebbe essere portata il più possibile vicino alla norma. Anche se il concetto di inclusione supera e abbandona questa logica, perseguendo invece l’idea della valorizzazione delle differenze, se facciamo un’analisi della realtà ci accorgiamo che i nostri schemi culturali sono ancora ben permeati da standard di normalità, da modelli di adeguatezza, che se non posseduti creano divari ed esclusione.

Alcune situazioni che ho affrontato a scuola mi hanno particolarmente colpita in tal senso. Per esempio, un insegnante mi segnalò una classe considerata problematica, chiedendomi di fare un intervento perché i ragazzi erano conflittuali, difficili da gestire, divisi in gruppetti e soprattutto totalmente indifferenti ad un compagno disabile in carrozzina, che era stato completamente isolato dal gruppo. Chiesi all’insegnante quali azioni avessero tentato prima di richiedere il mio aiuto; si trattava di una classe di seconda superiore, di ragazzi di 16 anni, che si conoscevano ormai da due anni, pertanto non un gruppo neo formato: i docenti avevano provato a fare spostamenti di banco, qualche attività di gruppo o avevano tentato qualche intervento più duro, come note sul registro o sanzioni.

Allora chiesi: “Ma avete mai parlato con la classe delle problematiche che ci sono? I ragazzi conoscono la storia del loro compagno disabile? Sanno perché è in carrozzina? A parte conoscerne il nome, cosa conoscono di lui?”…, beh nessuno aveva mai parlato con la classe, i ragazzi non conoscevano la storia del compagno disabile, nessuno aveva mai chiesto nulla, in sostanza nessuno conosceva chi realmente era.

La prima sensazione che provai fu di sconcerto: ma come era possibile che in due anni nessuno si fosse interessato, nessuno fosse stato incuriosito, nessuno si fosse posto la domanda di cosa stesse vivendo questo ragazzo? Eppure l’indifferenza era entrata a far parte di quel gruppo, nessuno si interessava, nessuno voleva vedere, in sostanza non era un problema e anzi era diventato un tabù: nessun insegnante aveva coraggio di affrontare apertamente il discorso con i ragazzi. Come fare allora per rompere il tabù? Pensai che poteva essere importante creare per i ragazzi uno spazio per parlare, per conoscersi e soprattutto per ascoltare. Proposi pertanto al gruppo di mettersi in cerchio e raccontare agli altri qualcosa di se: chiesi di parlare delle proprie passioni, dei propri sogni e obiettivi per il futuro e infine di raccontare un episodio della propria vita in cui avessero sperimentato una difficoltà. Dai racconti emerse un quadro variopinto della classe: c’era chi era appassionato di magia, chi di videogiochi, chi di formula uno; c’era chi sognava l’università, chi una carriera nella musica; qualcuno aveva vissuto situazioni simili di difficoltà, altri no, e ognuno aveva trovato le proprie strategie per affrontarle. In tutti ciò, fu curioso scoprire che il compagno che fino prima avevano ignorato, era una persona piena di interessi, appassionato di motori con un grande sogno nel cassetto; e fu strano sapere che per lui era stato particolarmente frustrante nel primo anno di scuola, non poter fare ricreazione assieme gli altri, perché i distributori di cibo e bevande, punto di ritrovo di tutta la scuola, non erano per lui accessibili. Nessuno aveva mai pensato che una rampa di pochi scalini potesse costituire un ostacolo insormontabile per una persona come lui, nessuno ci aveva mai fatto caso prima, o si era accorto del suo disagio. Il fatto di creare le condizioni per parlarne aveva in sostanza rotto un muro, rotto il tabù e aperto una via di conoscenza.

Quando penso a queste situazioni e a molte altre che ho vissuto nella scuola, credo che siano proprio i nostri tabù di adulti, le nostre resistenze a costruire la disabilità attorno ad una persona. Ci fa paura parlare della difficoltà e pensiamo che aggirando l’ostacolo, non toccando l’argomento facciamo del bene, “proteggiamo” la persona, la mettiamo al riparo, la tuteliamo dal rischio di esporsi, senza rendersi conto che in questo modo otteniamo l’obiettivo contrario.

Ma possiamo arrivare a prevenire situazioni di questo tipo?

Io penso di sì, se cominciamo fin dai primi anni di vita ad educare i nostri bambini a sviluppare empatia, apertura e sensibilità nei confronti dell’altro, se cominciamo a pensare che queste sono abilità e competenze che vanno educate, coltivate, che non si tratta soltanto di caratteristiche innate, che o si possiede o non si possiede. Sono competenze che vanno stimolate in famiglia e a scuola.

Ma non solo. Come possiamo pensare di diffondere l’inclusione a scuola senza pensare che una delle responsabilità di noi adulti sia anche quella di educare i bambini e i ragazzi ad una cultura sociale che definirei “cultura della complessità dell’esistenza”? Una cultura in cui la “normalità” viene concepita come qualcosa di complesso, non come uno standard a cui dobbiamo omologarci; una cultura in cui l’esistenza viene vista nelle sue molteplici sfaccettature. Allora forse se riuscissimo a partire da queste basi, non ci sarebbe più bisogno di porsi il problema di come comunicare alla classe l’esistenza di una problematica, e di come giustificare le differenze nelle modalità di apprendere, ma diventerebbe un fatto naturale ad esempio che qualcuno per leggere ha bisogno degli occhiali, qualcun altro del computer, e qualcun altro ancora della sintesi vocale. Diventerebbe naturale sviluppare una sana curiosità nel conoscere l’altro, anche se diverso da me, e non ci sarebbe stupore nel sapere che una piccola rampa di scale dotata o non dotata di un montascale possa fare la differenza nella vita di qualcuno.

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