paralimpiadi-rio-2016

Ormai è diventato normale: dopo le Olimpiadi tocca alle Paralimpiadi e il mio pensiero si sofferma proprio sulla “normalità” delle Paralimpiadi. Il loro crescente successo e l’attesa che generano nel pubblico sono sempre più legati alla parte sportiva, alla performance, ai tempi e ai risultati delle singole discipline.

Per arrivare a questa “normalità” è necessario rompere gli schemi; è necessario anche compiere delle forzature (ci si potrebbe chiedere: “Come può un non vedente giocare a calcio?”), affinché quello che per il non vedente è normale, lo diventi poi anche per tutti noi. E, in questo percorso lungo e tutt’altro che semplice, ecco che l’evento sportivo acquisisce la totale centralità. Quella centralità per cui sugli spalti il tifo è vero, di parte, come in tutti gli stadi; quella normalità, se vogliamo, per cui una persona non disabile lascia il suo compagno/a disabile non per la disabilità ma perché l’amore è finito.

Personalmente, seguirò con grande attenzione le regate veliche. Qualche anno fa contattai anche i referenti federali per lo sport paralimpico della vela, ma in alcune classi gli equipaggi erano già consolidati e sarebbe stato complicato trovare per me una collocazione idonea. Un po’ di speranza c’era e anche la sola possibilità che questo sarebbe potuto accadere è, ancora oggi, un gran bel ricordo.

Non sono poche, secondo quanto emerge dal web, le persone con disabilità che considerano le Paralimpiadi una vera e propria “esaltazione dello stigma” e l’esatto contrario dell’inclusione. Una posizione comprensibile, certamente; quello che mi chiedo è se, come è accaduto in passato, atleti con disabilità e atleti senza disabilità possano competere veramente alla pari: l’atleta con disabilità potrebbe perfino essere avvantaggiato da protesi o ausili. Anche questo è un tema di riflessione.

Quale che sia la nostra posizione, a Rio 2016 è un momento di sport e, come dice un utente social, “gli atleti sono atleti, e per questo vederli gareggiare è bello a prescindere”.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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