Quando sono chiamato ad un convegno per parlare di lavoro e disabilità, il mio approccio non è mai unilaterale.
Sono conscio che la mia sia un’esperienza particolare e originale da ascoltare: quella di una persona con disabilità che ha creato un’impresa per rispondere ad un bisogno disatteso.
Per questo resto sempre aperto al confronto e agli stimoli che arrivano dal pubblico.
Se poi – come è accaduto lo scorso 6 maggio – quel pubblico consiste in un’ottantina di studenti dei corsi di Pedagogia del lavoro (coordinati dal Prof. Andrea Galimberti) e Pedagogia dell’integrazione (guidati dal Prof. Andrea Mangiatordi) dell’Università Bicocca di Milano me ne torno a casa (senza essermi mosso da casa visti i tempi) con un patrimonio ancor più significativo di spunti e riflessioni sul mio lavoro e non soltanto.
Insieme a me, è presente l’amica di sempre Consuelo Battistelli, Diversity & Engagement partner di IBM, non vedente, per parlare di “Disabilità e lavoro: esperienze innovative per valorizzare le differenze”.
Consuelo è un’autentica istituzione nel mondo della disabilità per autorevolezza e capacità di coinvolgere il pubblico.
Una lezione dal taglio pratico per dare al mondo universitario quel riferimento con la realtà che non deve mai mancare e, aggiungo io, anche il mondo “là fuori”, quello delle imprese, a volte così schiacciate dalle regole ferree dei numeri, ha bisogno di teoria, per precorrere i tempi e anticipare le crisi: in altre parole, per garantirsi la sopravvivenza.
Estrapolo due temi emersi che vorrei approfondire in questo articolo.
La temporalità
Ammettendo la mia ignoranza, ho dovuto apprendere sul momento dal Prof. Galimberti come il concetto di temporalità (così filosoficamente vasto) potesse essere utile per una riflessione rispetto all’analisi dei contesti lavorativi. Per “temporalità” s’intende “l’esistenza di ritmi, ovvero di patterns (strutture) che si ripetono con una certa frequenza (anche non regolare) nella vita degli individui. I ritmi sono un elemento fondamentale per comprendere come abitiamo i luoghi che contribuiscono o non contribuiscono al nostro benessere e che concorrono in modo decisivo alla strutturazione della nostra identità (quindi anche professionale).Come si armonizza il ritmo che ogni soggetto porta con sé con il ritmo che l’organizzazione di cui fa parte dispone?”
Le differenze individuali rischiano di appiattirsi o restano distinte? E’ questo un tema, spesso poco dibattuto, ma di fondamentale importanza per la ricchezza di dimensioni che porta con sé.
Dopo questa spiegazione, riformulo la domanda: “la temporalità rappresenta un condizionamento che la persona con disabilità innesca quando entra a far parte di un ambiente strutturato come quello aziendale, che ha tempi precisi e definiti, procedure standardizzate, e che si trova suo malgrado costretto a dover ridefinire, anche parzialmente, tutto ciò. Cosa può succedere?”. Questo punto, indiscutibilmente vero, ci apre a due riflessioni.
Innanzitutto la ri-definzione di tempi, prassi e procedure non sono, di per sé, qualcosa di negativo per la vita aziendale. Potrebbero diventarlo se mal gestiti, ma è molto più probabile che non lo siano se si evolve verso nuovi equilibri migliorativi dei precedenti, capaci di portare più efficienza e mantenimento (o raggiungimento) di un ambiente lavorativo sano e sereno.
Il secondo aspetto va a ridefinire un po’ la prospettiva con cui guardiamo le persone con disabilità, e Battistelli lo sa indubbiamente spiegare molto bene quando dice: “i bisogni non sono speciali, ma sono uguali per tutti”.
Le persone con o senza disabilità, sono prima di tutto persone: ciascuno con le proprie esigenze, con i propri bisogni (diversi, appunto, ma in fondo uguali per tutti!) e la disabilità pone solo l’accento su queste differenze, a partire da una base comune tra tutti noi: identici nelle nostre diversità.
Aziendalmente parlando, le necessità specifiche del lavoratore disabile non sono molto diverse da quelle di qualsiasi altro lavoratore. Quando questo sarà metabolizzato, non ci sembrerà strano che una persona senza disabilità lavori in smart working e una disabile sia presente in ufficio: in questo modo iniziamo anche a smantellare qualche schema mentale ormai desueto.
Percentuale di disabilità
Mi è stato chiesto da uno studente del corso accademico come fosse gestita, in Jobmetoo, la percentuale della disabilità.
Innanzitutto ho voluto rimarcare che una cosa è la percentuale d’invalidità del verbale che accerta un handicap: e tale percentuale può voler dire tutto e niente. Esistono lavoratori col 100% d’invalidità che lavorano con successo. Altra cosa è la percentuale che dà origine agli incentivi, fiscali ed economici, per le aziende che assumono, che, appunto, subiscono variazioni sulla base sì delle percentuali ma anche tipologia di disabilità. Spesso si fa confusione tra questi due aspetti.
Chiarito questo punto, ho voluto anche sottolineare come quella che può essere una leva commerciale indubbiamente potente (obbligo di assunzione con esoneri e multe per chi non adempie o non può farlo) è un aspetto che passa quasi inosservato nella nostra policy di vendita da sempre.
Il focus, su cui abbiamo voluto insistere in Jobmetoo, quasi come fosse il nostro biglietto da visita, è l’analisi della reale compatibilità tra esigenze dell’azienda e quelle dei candidati: match in cui la disabilità è uno spicchio della torta, non il più piccolo, ma neanche il più grande.
Questo rapporto, equilibrato con la disabilità, prima di essere una linea commerciale, è un volano di cambiamento culturale, perché spinge tutti gli attori a focalizzarsi sulla persona in generale e non esclusivamente sulla sua specifica condizione. E, cambiando la cultura, cambia (e migliora) anche l’economia.
Citando il collega Matteo Schianchi (assegnista di ricerca presso la stessa Università, e collaboratore della cattedra di Pedagogia Speciale), Andrea Mangiatordi chiude la lezione con una riflessione molto significativa: “la disabilità è un tema. È presente nel sapere comune e nei discorsi a qualunque livello, non solo scientifici o specialistici. Tutti ne hanno un’idea, tutti possono – in un modo o nell’altro – definirla. Possiamo essere d’accordo o no con queste definizioni, trovarle pietistiche oppure autenticamente pronte ad accogliere la differenza, ma c’è un minimo comune denominatore: è il fatto che tutti abbiamo percezione della disabilità, appartiene alla nostra esperienza e al nostro immaginario. Forse non è ancora così per l’idea di persona con disabilità che lavora, più difficile da definire, meno universalmente nota come un dato di fatto, e probabilmente percepita ancora più come un’eccezione alla regola, o su base assistenzialistica come una semplice forma di riempimento del tempo. Più che tema, forse ancora problema. Occorre un cambiamento culturale in questo senso, che richiede di sfidare la percezione comune della persona con disabilità come oggetto di intervento da parte di qualcun altro, inquadrandola come soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali.”