Recruiter

Tre giorni, moltissime persone passate a conoscere e a stringere la mano a Jobmetoo, più di un centinaio di lavoratori disabili o appartenenti a categorie protette incontrati, circa settanta colloqui conoscitivi a tavolino in, più o meno, venti ore effettive.

Dietro a questi numeri, anzi, davanti a questi numeri, ci sono persone, volti, storie.

Da recruiter, ho letto curricula, ascoltato percorsi scolastici, professionali e di vita, annotato motivazioni e aspirazioni, raccolto difficoltà personali e lavorative e percepito amarezza, rassegnazione, ma anche tanta forza di volontà e desiderio di mettersi in gioco.
Ho conosciuto ragazzi non ancora diplomati, giovani alle prime esperienze professionali, donne e uomini con anni di lavoro alle spalle, genitori preoccupati per i propri figli.

Ho incontrato storie personali, ognuna differente dall’altra…


Ho visto una realtà diversa da quella di chi dice che “manca la voglia di fare, i giovani non si accontentano di ruoli e contratti, chi è in cerca di lavoro è schizzinoso”. Al contrario, anche a discapito di lauree conseguite in corso, o di ruoli di responsabilità ricoperti per anni, di competenze linguistiche o tecniche di alto livello, non c’è un solo candidato che non abbia espresso disponibilità a rinunciare alle proprie ambizioni per adattarsi “a qualsiasi cosa”: come se la condizione di disabilità implicasse necessariamente l’impossibilità di poter essere valutati per le proprie personali conoscenze e competenze.

Nel mio ruolo ho cercato di rileggere con le persone di volta in volta sedute davanti a me il loro curriculum, provando a valutare insieme potenziali strade da percorrere e i punti di forza su cui puntare, senza tuttavia trascurare le esigenze individuali: strutture accessibili, necessità di supporti specifici, orari ridotti, impieghi compatibili con curriculum, aspirazioni ed invalidità.

“Le aziende sono in crisi, hanno la sospensione dell’obbligo, signorina, come faccio a trovare lavoro?”.

Se a sostenere i colloqui fosse la persona con le proprie competenze e non la sua invalidità, disabili e categorie protette potrebbero trovare un impiego anche al di fuori degli obblighi di legge.

Una strada percorribile esiste, bisogna solo che l’accesso sia segnalato e reso visibile sia a chi cerca lavoro, sia -soprattutto- a chi ha necessità di assumere personale; la strada, poi, va illuminata su tutta la lunghezza, con il supporto corretto -strutturale o psicologico- per lavoratore e azienda, perché nessuna delle due parti si perda e la collaborazione possa proseguire in modo proficuo e soddisfacente.
Non è un costo, è un investimento a lungo termine: per l’azienda, per il lavoratore, per la società.

Aspettiamo di incontrarvi nei nostri prossimi appuntamenti:
Verona: Job&Orienta 20/21/22 novembre
Bologna: Handimatica 27/28/29 novembre

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3 Commenti

  1. Ho una disabilità motoria non lieve praticamente dalla nascita, anche se non congenita. Ciò, tuttavia, non mi ha impedito di conseguire laurea e master a pieni voti (senza “regali” di alcun tipo), di studiare varie lingue straniere (ne parlo fluentemente due, di altre conosco abbastanza da poter andare in giro senza troppi problemi), ho competenze informatiche avanzate e anche una “discreta” esperienza in ambito marketing e comunicazione. Leggendo questo post, ho trovato due passi che, diciamo così, mi hanno lasciata quanto meno perplessa:
    1. – “non c’è un solo candidato che non abbia espresso disponibilità a rinunciare alle proprie ambizioni per adattarsi “a qualsiasi cosa”: come se la condizione di disabilità implicasse necessariamente l’impossibilità di poter essere valutati per le proprie personali conoscenze e competenze”: questo, secondo Lei, è un aspetto positivo? Secondo me, tutt’altro: se noi per primi ci “squalifichiamo”, perché le aziende dovrebbero valutarci per ciò che siamo e possiamo dare loro, al di là degli sgravi contributivi e dei vantaggi di altra natura? Io non mi “accontento”, perché essere valutata (e, se capita, anche scartata) per le mie competenze e non per il mio handicap è un mio diritto (sacrosanto).
    2. – “Se a sostenere i colloqui fosse la persona con le proprie competenze e non la sua invalidità, disabili e categorie protette potrebbero trovare un impiego anche al di fuori degli obblighi di legge”. A sostenere i colloqui SONO le persone: è chi sta dall’altro lato, di solito, a vedere, nel caso dei disabili, solo la loro invalidità. A me è capitato d’essere contattata (non dirò da quale società per carità di patria), pre-crisi, per svolgere un lavoro da contabile: nulla di male, non fosse che, sul mio curriculum, questa competenza è totalmente assente, avendo io studiato e fatto tutt’altro. Risposta del selezionatore: “Ma Lei è una categoria protetta, no? E il cliente quello vuole”. Io no, se permettete…
    Smettiamola di parlare di “categorie protette”: siamo PERSONE, non bestie in via d’estinzione da tenere rinchiuse in una riserva!

    • Gentile Elisa,
      innanzi tutto ti ringrazio per il tuo commento, che mi consente di approfondire il mio punto di vista.

      Il primo punto che sottolinei è per me, come recruiter, fondamentale: ciò che intendevo nel mio post è proprio che, non solo tra i candidati che ho incontrato ho visto voglia di fare, ma addirittura disponibilità a rinunciare alla propria professionalità, cosa che, a mio avviso, non dovrebbe accadere. Compito di chi lavora nelle risorse umane è offrire un ruolo adatto per competenze (e non solo) al candidato, senza demansionamenti di sorta. Sono anche convinta che i candidati non debbano rinunciare alle proprie aspirazioni o competenze ed è per questo che, nel mio lavoro, laddove ci siano difficoltà ad individuare una strada da percorrere, rifletto insieme alla persona che ho davanti sui suoi punti di forza e sulle possibili strade da intraprendere, senza dover cadere nel “valuto qualsiasi cosa”.

      Di nuovo, sono d’accordo con te: smettiamola di parlare di categorie protette o disabili o candidati, parliamo di Persone. Non solo, iniziamo a dare a tutte le persone le stesse opportunità di impiego, a prescindere da obblighi di quote di riserva e valutando -di nuovo- competenze, professionalità e ambizioni.

      • Ciao Elisa,

        sono Daniele e desidero aggiungere anche un mio commento.

        Da persona con disabilità non posso che sottoscrivere le tue sensazioni. Tengo a sottolineare soltanto, come ha già fatto Valeria con altre parole, che in un’epoca di NEET (ragazzi che non studiano, lavorano né si formano) la persona disabile che dimostra voglia di fare rappresenta un valore in più da mostrare alle aziende.

        Sul fatto, poi, che non si debba assolutamente “imprigionare” un disabile in un compito, senza offrirgli possibilità di crescita, sono personalmente molto fermo. Ricapitolando: premiare la voglia di fare, ma dare anche prospettive.

        Grazie davvero per il tuo commento così ricco e maturo. A presto!

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