Numeri e parole sono gli strumenti con i quali ci confrontiamo col mondo. A volte contano i numeri (e i fatti), a volte le parole (immaginate quanti numeri e fatti sono discesi da un’idea, come un’invenzione ad esempio). Non c’è – tra il numero e la parola – un vincitore: ciascuno ha il suo tempo. I numeri servono ad avere una fotografia di come le cose stiano andando e spesso hanno il potere di sovvertire con decisione credenze e frasi fatte.

Nel volume “L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Italia”, realizzato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, un capitolo in particolare tocca il tema del ricambio generazionale. L’identikit del profilo con disabilità è: uomo, residente al Nord Italia, impiegato e, udite udite… fascia d’età tra i 50 e i 59 anni! Qui farei una prima osservazione di massima portando l’attenzione sul fatto che per le persone con disabilità l’ingresso al lavoro è decisamente ritardato. Non deve quindi stupire che solo verso i 45/50 anni un disabile trovi il suo posto nel mondo del lavoro. Credo che ciò imponga una seria riflessione da parte di tutti affinché questo lasso di tempo sia drasticamente ridotto. D’accordo, sappiamo benissimo che la condizione di disabilità può rallentare certi processi (giusto per fare un esempio, il mio primo impiego stabile l’ho avuto a 33 anni, dieci dopo la laurea… ) ma almeno, se vogliamo restare sui numeri, facciamo in modo di abbassare di dieci anni il profilo medio del lavoratore con disabilità! Come si può raggiungere questo obiettivo?

Prima di tutto, cerchiamo di avere un quadro su ciò che, all’atto della ricerca del lavoro, condiziona il nostro percorso: sono le competenze a mancare? O il luogo di lavoro è troppo lontano? O ci sono altre ragioni? Con questo quadro in mano, proviamo ad immaginare degli interventi che aiutino il disabile ad accelerare il suo ingresso nel mondo del lavoro. Poi teniamo alta l’attenzione in quel delicato momento in cui terminano le scuole dell’obbligo o l’università: è un salto nel vuoto che tutti, disabili e non, siamo chiamati a fare, ma proviamo ad accertarci che tutti – ripeto: disabili e non – abbiano una “cassetta degli attrezzi” minima, per cadere senza farsi male, imparare e ripartire. Sappiamo bene che le Università, oggi, sono delle eccellenze nell’inclusione, ma nei miei incontri con le Università più volte mi è stato confessato che, dopo la laurea, magari conseguita con ottimi risultati, gli studenti con disabilità non avevano scelte migliori che tornare a casa, mandando all’aria anni di sacrifici e qualche legittimo sogno. Ma torniamo al report della Fondazione Consulenti del Lavoro.

Se nell’occupazione italiana la quota di “under 40” e “under 50” è molto simile (36 e 34% rispettivamente), tra i disabili gli “under 40” occupati non arrivano al 18%. Un dato macroscopico, come dicevo in apertura, con numeri in proporzione più elevati per classi di età più alte. La stessa Fondazione indica nel “ritardo nell’accesso al lavoro” la causa principale di questa rappresentazione delle classi di età dai 50 anni in poi. Si conclude dicendo che tutto questo inibisce i “fisiologici processi di ricambio generazionale”. E torniamo al titolo: quante volte mi capita di condividere col team di Jobmetoo richieste di aziende tendenti a ricercare un candidato che, nella realtà dei fatti, è molto diverso? Oltretutto, man mano che le classi di età più vecchie continuano ad essere sovra rappresentate, per quelle più giovani si restringono sempre di più le reali possibilità di accedere al mondo del lavoro.

E allora? Allora, davanti a questi numeri così eclatanti, che rappresentano forse il dato più drammatico di tutta l’analisi della Fondazione, dobbiamo muoverci e produrre le necessarie parole (idee) che diano forma a nuovi fatti (e numeri) affinché i più giovani possano riprendere la quota fisiologica che loro spetta. E non soltanto per il loro bene.

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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