Quando ho saputo che il libro “Disabilità e società” di Tom Shakespeare era, finalmente, disponibile in edizione italiana, l’ho ordinato subito. E, appena è arrivato, l’ho messo in cima alla lista dei libri da leggere e l’ho letto con molta attenzione.

Tom Shakespeare, scienziato sociale esperto in disabilità e disabile lui stesso, ha contribuito, tra l’altro,

alla stesura di alcune parti della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. In questo volume indaga il rapporto tra disabilità e società secondo una visione pragmatica, che da sempre caratterizza i suoi studi: in altre parole, la teoria spesso e volentieri è impeccabile da un punto di vista formale ma non fa i conti con la realtà dei fatti. Il modello sociale della disabilità, ossia quello secondo cui la persona è disabile a causa del contesto che la circonda, non può essere preso a verità assoluta anche se contiene buoni principi da seguire. Seguire il modello sociale senza “testare” la realtà dei fatti, le singole esperienze e il vissuto di ciascuna persona con disabilità, potrebbe non essere del tutto utile. L’analisi di Shakespeare si concentra principalmente sul Regno Unito, dove il modello sociale ha avuto un forte seguito, ma si allarga, ovviamente a tutto il mondo.

Prima di citare alcuni passaggi di Shakespeare che mi hanno veramente colpito, vorrei sottolineare come – e di questo me ne sono accorto anche di persona – molte persone con disabilità non conoscono veramente a fondo la propria storia, e neanche i propri diritti. Questa è una lacuna da colmare. Per chiedere alla società ciò di cui abbiamo bisogno per essere alla pari e competitivi, abbiamo anche bisogno di conoscere noi stessi, quale che sia la nostra condizione. Questo implica anche conoscere le teorie (che spesso i non disabili “cuciono” sui disabili stessi, e Shakespeare lo spiega molto bene…) che definiscono poi le politiche da azionare per ottenere i risultati che ci aspettiamo. Quindi, non solo leggete questo libro, ma leggete, leggete sempre e comunque, informatevi, in qualsiasi modo, perché non c’è nessuna teoria che può essere considerata valida su di voi senza che voi siate d’accordo.

Ecco qui alcuni temi toccati dell’autore che mi hanno fatto riflettere.

Più semplice non significa semplificare

Shakespeare cita Einstein: “rendi tutto più semplice, ma non semplificarlo” in merito a come dovrebbe essere una teoria. Una teoria, citando stavolta Guglielmo di Occam, che non postuli “entità inutili”. Effettivamente, le teorie belle e inutili al progresso del mondo, sono qualcosa di davvero dannoso. Per chiunque.

Attenzione al linguaggio

Anche qui Shakespeare sorprende tutti con un’osservazione contro tendenza. Cito testualmente:

Cavillare sulla dicitura “persone disabili” contro “persone con disabilità” non fa altro che distrarre dall’unirsi nella causa comune di promuovere l’inclusione e diritti dei disabili”

Un messaggio forte, senza dubbio, ma che io credo profondamente utile. Giusto conoscere e ammodernare il linguaggio ma, anche in questo caso, non farla diventare una mera questione di principio. Preferisco vivere in una paese in cui mi chiamano “Daniele il sordo” ma avere tutti programmi sottotitolati piuttosto che essere definito “persona con disabilità” e trovarmi senza un supporto adeguato: verrebbe meno la mia cittadinanza.

Esperienza del disabile

È il filo conduttore di tutto il libro: non si può ignorare l’esperienza che ciascuno di noi vive. Persone con la stessa disabilità possono avere bisogno di accomodamenti ragionevoli diversi, e questo ogni buona teoria dovrebbe tenerlo in considerazione. Esemplare questo passaggio che, di nuovo cito testualmente:

I comuni disabili in genere non vedono la propria vita nell’ottica degli alti concetti teorici sposati da questi accademici (Priestley, Waddington e Bessozi, 2010). E neppure sono felici di liquidare il problema della menomazione e del suo impatto fisico e mentale, che è una realtà quotidiana per tanti disabili.

La percezione dei non disabili

Dice Shakespeare:

(…) le persone non disabili in generale percepiscono la menomazione come molto più negativa e limitante di coloro che ne fanno esperienza diretta (Young, 1997; Mackenzie e Scully, 2008).

Beh, questo è davvero illuminante, non trovate? Quante volte leggo nello sguardo di persone senza disabilità afflizione nel guardare un disabile, quale che sia la disabilità? Eppure nessuno di noi può realmente quanto sia felice quella persona con disabilità, e magari lo è più di noi.

Potrei veramente continuare a lungo, posso solo caldamente suggerire la lettura di un libro che lascerà un segno importante in ciascuno di voi. La disabilità, e non soltanto per il suo impatto numerico, è molto più di una condizione, o di una teoria: è una questione filosofica che attraversa ciascuno di noi, come essere singoli e come società.

Io credo che quando non ci si accorge quasi più della disabilità della persona che abbiamo davanti, quando non vediamo la carrozzina, o il bastone o la protesi acustica, siamo già sulla buona strada.

 

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

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