assistenzialismo e inclusione
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Nella maggior parte dei casi, quando media e politica affrontano il tema della disabilità, l’accento viene posto, essenzialmente, su due aspetti. Da un lato, l’assistenzialismo associato al pietismo (“Poverini, bisogna aiutarli!“); dall’altro quella che io chiamo la “retorica dell’eroe“, che porta a descrivere e rappresentare le persone con disabilità come necessariamente forti e piene di volontà, un “esempio” per tutti. Niente di male, in questo, intendiamoci: in fondo, vi sono condizioni nelle quali l’assistenza è un requisito indispensabile e, quanto al secondo punto, è spesso vero che, per affrontare una disabilità e non restarsene in un angolo a piangere sulla propria sventura, è necessario trovare in sé risorse, anche caratteriali, non indifferenti.

Ma proviamo a guardare le cose da un punto di vista diverso. Fatti salvi i casi in cui la condizione di disabilità è tale da non consentire alla persona di provvedere a se stessa e alle proprie necessità primarie, lavorare, avere una vita sociale, perché non porre l’accento, più che sull’assistenzialismo, sulla creazione di condizioni favorevoli all’autonomia delle persone con disabilità? Per dirla prendendo in prestito un’espressione molto in voga, perché, oltre al “dopo di noi” (tema sacrosanto, per carità), non pensare innanzitutto al “durante loro“, vale a dire porre al centro delle politiche messe in atto (e dei messaggi veicolati attraverso i mass media) il vissuto, le esigenze e le legittime aspettative delle persone con disabilità? In fondo, è proprio questo il senso della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità: porre l’accento sulle persone, più che sulle loro condizioni di disabilità. Perché, è bene ricordarlo, una delle difficoltà maggiori nell’affrontare il tema della disabilità è proprio il fatto che non esista una disabilità, ma tante disabilità e anche persone con disabilità simili possono avere esigenze molto diverse tra loro.

Ben vengano le strutture che assistono le persone non più autonome o non autosufficienti: è giusto che esistano e non ve ne sono ancora a sufficienza, soprattutto se pensiamo che l’età media nel nostro Paese si sta alzando ed è risaputo che, spesso, vecchiaia e disabilità sono associate. Però, questo non è sufficiente a dire che “si è affrontato il problema della disabilità“. Una larghissima fetta dei 4 milioni e passa di persone con disabilità è costituita da individui che, per condizione ed età, sarebbero perfettamente in grado di essere autonomi, produttivi, membri attivi della società e non semplicemente “pesi morti” o “problemi” da risolvere in qualche modo (magari, nascondendoli in strutture “dedicate”). Si fa abbastanza per rispondere alle legittime aspettative di queste persone con politiche efficaci mirate all’inclusione (scolastica, lavorativa, ma anche sociale tout court, come non mi stanco di ribadire), che vadano oltre il mero assistenzialismo? Certo, è importante che esistano assegni d’invalidità e simili, ma è ancor più importante consentire a chi ne ha tutte le possibilità (nonostante la disabilità) di lavorare, muoversi, viaggiare, rimuovendo le barriere architettoniche e culturali.

Solo così potremo davvero essere e sentirci persone, prima che “poveri cristi” ai quali elargire elemosine (non solo in termini di denaro, assistenza, ma anche di attenzione, tempo, affetto, amicizia, amore, etc.) dall’alto. E questo sarebbe un vantaggio, anche economico, non indifferente per la collettività.

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