?Ricevo molte mail di ragazze e ragazzi con disabilità che ci raccontano episodi legati al lavoro. Oggi prendo alcuni stralci da una mail particolarmente interessante, tacendo ovviamente i nomi dei diretti interessati e delle aziende in cui lavorano.

Serena (nome di fantasia) è una lavoratrice con disabilità e mi scrive a proposito di un suo collega:

… è entrato come lavoratore a tempo determinato e in un secondo momento ha presentato la documentazione della sua disabilità (già esistente al momento dell’assunzione), trasformando così il suo contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Lui, infatti, ha tentato di tutto per trovare un lavoro per via “normale” (lodevole data la sua situazione o forse ingenuità?), si è perfino trasferito dalla sua regione di residenza e ha aderito ad ogni iniziativa di inserimento lavorativo che gli si presentava e solo alla fine, quando l’unica occasione trovata gli stava per essere sottratta, ha tirato fuori la carta della disabilità. Furbizia? Disperazione? Non so e non è mio interesse saperlo…

Per noi di Jobmetoo, invece, questo appare davvero interessante per una ragione ben precisa: il modo di procedere descritto è diffuso più di quanto non si creda. Nei nostri incontri con le Università italiane, vere fucine di talenti e, comunque, di persone preparate come soltanto dieci anni fa non era immaginabile, emerge spesso un certo sconforto quando si parla dei laureati con disabilità, che preferiscono cercare lavoro attraverso i propri canali presentandosi da “non disabili” ai colloqui. E solo alla fine, quando l’ingresso nel mondo del lavoro diventa impossibile, si tira fuori la “carta” della disabilità.

La disabilità non è il Jolly delle carte francesi. La disabilità è una condizione umana. E’ l’uomo, in tutto e per tutto, senza nulla da dover nascondere e senza utilitarismi. Già, perché se si ha paura di essere usati dagli altri, di sentirsi oppressi, è anche vero che gli stessi disabili possono, per disperazione, “usare” la propria disabilità solo quando convenga. Così facendo, non si va mai troppo lontano.

Nascondere la disabilità non è un vantaggio

Businessman in wheelchair in the office

Se nascondo ad un datore di lavoro la mia condizione, se non sono trasparente, prima o poi sorgeranno problemi nel mio inserimento e la responsabilità sarà, questa volta, anche mia. Se mi ripresento a un datore di lavoro giocando la “carta” della disabilità dopo avergliela nascosta, forse non sto costruendo le migliori basi per il nascente rapporto.

Se invece cerco di essere trasparente, di informare il datore di lavoro della mia condizione, di cosa comporti a livello di “accomodamenti ragionevoli”, di far capire che la mia condizione è solo una parte di me e che la parte restante ha voglia di fare, lavorare e credere nei valori dell’azienda che mi potrebbe assumere, la musica sarà ben diversa. Se il datore di lavoro avesse timore di assumermi, a questo punto la responsabilità ricadrebbe tutta su di lui.

Serena continua:

 Un giorno mi contattano da un Centro di Formazione Permanente che mi propone un breve corso gratuito mirato all’inserimento lavorativo. Il mio nome era stato preso proprio da quella lista per me inutile (la lista del Collocamento mirato). L’ho fatto, ma affrontato come atto dovuto; non credevo che alla fine ci sarebbe stato realmente un posto di lavoro per me. Quanto mi sbagliavo!

Ecco un altro spunto di riflessione. Spesso ricevere offerte di corsi di aggiornamento professionale, o perfino proposte di colloqui, ci sembrano occasioni perse in partenza. E’ giusto riconoscere che, in questi momenti, ci stiamo mettendo i limiti da soli. Nessuna occasione – altrimenti non si chiamerebbe così! – è mai persa fin dal principio. L’occasione va accolta, vissuta e poi analizzata, sia se dovesse portare qualcosa di positivo sia se dovesse rivelarsi un buco nell’acqua.

Sempre cogliere le opportunità

opportjob

Forse l’unica esperienza davvero formativa per me, prima di lasciare tutto per fondare Jobmetoo, fu nella veste di consulente di un Direttore Generale che si occupava di servizi socio sanitari. Come arrivai a lavorare con lui? Ero stato invitato ad un convegno per parlare della mia esperienza di iscritto al Collocamento mirato. Inizialmente non volevo neppure andare, non avendo nulla da dire che non fossero le solite formalità. Poi ci ripensai e volli essere presente per dire la mia. Spiegai che il Collocamento mirato dovrebbe essere la risultante di un lungo percorso di studi e di formazione e non “piazzare” il disabile al primo posto utile.

Ebbene, quel direttore, nascosto tra la folla, rimase colpito dal mio intervento e dopo il convegno mi raggiunse chiedendomi di andarlo a trovare. Dopo due settimane ero operativo nel suo ufficio; mi affidava compiti impegnativi e di responsabilità. Era incuriosito dalla mia sordità. Spesso mi telefonava. Sapeva benissimo che io non potevo parlare al telefono, ma si divertiva quando io chiudevo la conversazione e poi diceva agli altri colleghi: “Che maleducato, Daniele: ho bisogno di parlare con lui e mi chiude sempre il telefono in faccia!”.

Ricordo questo direttore, che mi prendeva bonariamente in giro per la sordità, come una delle persone che più mi abbiano rispettato nel mio percorso lavorativo. Non aveva timore a parlare della mia disabilità, con me, con i presenti, con chiunque e nel frattempo mi affidava mansioni di vera responsabilità dimostrando che si fidava di me.

Quali sono le preziose lezioni che traiamo da questi esempi? Essere trasparenti e sapersi mettere in gioco sono due ingredienti indispensabili per la nostra crescita umana e professionale.

 

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Laurea in Scienze Politiche, poi un quindicennio di lavori disomogenei e frustranti a causa della mia disabilità uditiva grave. Ero per tutti un "bravo ragazzo", ma al momento di affidarmi un compito gli stessi giravano le spalle. Finalmente, grazie ad un concorso pubblico, arriva il posto fisso a tempo indeterminato come amministrativo in una azienda sanitaria. Fui assegnato al front office ospedaliero, mansione del tutto incompatibile con la mia sordità. Dopo alcuni anni veramente sofferti, la decisione di dimettersi: una decisione adulta, consapevole, serena. Quindi la scelta di essere un imprenditore per far diventare impresa il binomio che nella mia vita non aveva mai funzionato: lavoro e disabilità. "Nulla su di noi senza di noi" non è solo lo splendido motto delle persone con disabilità, ma il messaggio di speranza che muove verso l' autodeterminazione.

6 Commenti

  1. Ciao Daniele,a quindi esiste anche in Italia il concetto di “reasonable adjustment” ed é un criterio legale come nel Regno Unito oppure no?

    • Ciao Maria Grazia, la tua osservazione è molto interessante. Rispondo subito: sì, l'”accomodamento ragionevole” è normato dalla Legge italiana, precisamente con la Legge 99/2013 che va a colmare una lacuna importante nonostante le numerose disposizioni legislative a favore delle persone con disabilità. La, purtroppo nota, sentenza della Corte di Giustizia UE del 4 Luglio 2013 ha “innescato” questo doveroso aggiornamento da parte dell’Italia. In questo link Superabile trovi un’ottima ricostruzione del percorso. Inutile dire che ora bisogna capire, nella realtà dei fatti, se questi intenti avranno un seguito più o meno fedele al tenore della legge. La Convenzione ONU e la direttiva UE 2000/78, infatti, illustrano un nuovo paradigma: non può essere solo lo stato a farsi carico del miglior inserimento lavorativo del disabile, ma anche l’impresa deve adottare azioni concrete ed efficaci, nei limiti della ragionevolezza.

      • E se lo stato non si fa carico dell inserimento lavorativo ; come nel mio caso come si dovrebbe fare ? Dovrei andare avanti a borse lavoro di 3 mesi per tutta la vita ? Le aziende le poche che ho trovato (tutte via linkedin o informagiovani ricercavano senza disabilita ) e purtroppo non mi hanno preso per mie imperizie al colloquio . é un po la mia storia ….

        • Salve Matteo, la Legge 68 stabilisce un obbligo, ma come sappiamo questo non è rispettato. Lo Stato non può fare più di molto, è la rete coinvolta che deve poter fare di più, come le agenzie per il lavoro private ad esempio. E’ anche importante sottolineare che, da parte vostra, bisogna sapere come e dove cercare lavoro, altrimenti si rischiano tentativi a vuoto come quelli in cui ti sei imbattuto. Grazie per l’attenzione e i nostri migliori auguri.

  2. Ciao,
    Concordo, in linea di massima, con il messaggio dell’articolo: essere trasparenti è meglio. Però… Da disabile (motoria), mi è capitato parecchie volte, nel corso degli anni, d’essere contattata da Responsabili HR o recruiter interessati solo al mio essere una “categoria protetta”, che mi proponevano opportunità di lavoro assolutamente non in linea col mio profilo (un esempio per tutti: la proposta di un lavoro da contabile, a me che ho una laurea in Filosofia e svariati master in ambito comunicazione e digital… Alla mia domanda “Ma Lei l’ha letto, il mio CV?”, la tipa rispose: “E’ una categoria protetta, no? E quello cerco!”). Così, mi chiedo: se la disabilità è solo una condizione umana e, come nel mio caso, non richiede alcun “aggiustamento” (se non la presenza di un ascensore, dato che debbo evitare le scale), all’azienda, che senso ha “sbandierarla”, a scapito delle mie esperienze e competenze, col rischio (come m’è capitato) di essere scartata in selezioni per ruoli di prestigio a vantaggio di candidati “normodotati”? Cos’è: noi disabili dobbiamo per forza rassegnarci a raccattare le briciole altrui, anche in ambito professionale? No, mi dispiace: non ci sto. Pretendo di essere valutata (e, se è il caso, scartata) per le mie competenze, non per come cammino.

    • Ciao Elisa,
      grazie per il tuo commento.
      La valutazione delle persona per noi di Jobmetoo viene prima della disabilità: è importante capire le capacità e le competenze della persona, la disabilità viene dopo, non è un vincolo.
      A presto!

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