chiamata_nominativa

Sappiamo bene, addetti ai lavori soprattutto, che le recenti modifiche alla Legge 68/99 per mano del Jobs Act non hanno trovato tutte le associazioni unanimi nel consenso. Prima di parlarne, però, vorrei fare una precisazione che viaggia su un doppio binario:

  • La visione di Jobmetoo è quella di rendere le persone protagoniste della propria vita grazie al lavoro: con tutto il rispetto per le leggi e le disposizioni vigenti, l’approccio culturale è sicuramente un tema che non può essere trascurato e Jobmetoo intende con forza portare questa “vision” oltre le disposizioni di legge, più o meno restrittiva che sia;
  • personalmente, data la mia disabilità grave, vivo intensamente questo tema che mi spinge ad una riflessione che esula dal mio ruolo in Jobmetoo e mi riguarda, appunto, in quanto persona disabile.

La Legge 68 risale al 1999: sedici anni non sono stati abbastanza perché essa si affermasse o fosse semplicemente rispettata. La tirata d’orecchie all’Italia da parte della Corte di giustizia UE nel 2013 ancora brucia. Eppure la stessa Legge 68 è giudicata dagli addetti ai lavori come una delle più avanzate d’Europa. Qualcosa non ha evidentemente funzionato, e non può essere che la colpa sia soltanto delle “aziende insensibili”…

Le modifiche apportate dal Jobs Act vanno quindi in questa direzione: trovare una soluzione a problemi che sembrano irrisolvibili. Sarebbe tuttavia ingeneroso ridurre tutte le modifiche della riforma alla sola abolizione della chiamata numerica, in quanto essa prevede (molto) altro. Vediamo di cosa si tratta:

  • Istituzione dell’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), che avrà il compito di fungere da unico referente per la nuova Rete Nazionale per le politiche del lavoro. In particolare, viene istituita la “Banca dati del collocamento mirato”, deputata alla raccolta di informazioni sul collocamento obbligatorio da parte di aziende private ed enti pubblici;
  • Modalità erogazione degli incentivi: corresponsione diretta e immediata dell’incentivo al datore di lavoro da parte dell’INPS mediante conguaglio nelle denunce contributive mensili;
  • I lavoratori, già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio sono computati nella quota di riserva;
  • Base di computo: sono inclusi i contratti di somministrazione della durata superiore a dodici mesi;
  • Istituzione di un Responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro.

Come vediamo, le modifiche sono molte e tutte di grande rilievo (basti pensare al Responsabile dell’inserimento lavorativo: chi sarà? Cosa dovrà fare? A chi dovrà rendere conto?).

Detto questo, torniamo però alla chiamata numerica, la cui abolizione ha spinto parte del mondo associazionistico (i dettagli sulle proteste e sulle sigle aderenti sono qui) ad una sollevazione abbastanza clamorosa: il diritto di “scegliersi il disabile”, con ovvio riferimento alla preferenza per le disabilità più lievi, è il punto caldo di discussione.

Abbiamo voluto approfondire la questione con un’intervista a Virginio Massimo, presidente dell’Associazione “Tutti nessuno escluso” , promotrice della delegazione che ha chiesto un intervento della Presidente della Camera perché sia avviato un percorso istituzionale di ripristino della norma ex ante che prevede il 60% per le assunzioni nominative e il 40% per le assunzioni numeriche.

Presidente Massimo, è soddisfatto dell’incontro con Carlo Leoni, portavoce politico della Presidente della Camera Laura Boldrini? 

La nostra delegazione ha incontrato il Consigliere Politico della Presidente Boldrini, che si è impegnato a presentare alla Presidente la nostra posizione contro la chiamata nominativa generalizzata delle persone con disabilità ed a illustrare le iniziative che intendiamo portare avanti: alla manifestazione con presidio in Piazza Montecitorio del giorno 11 novembre 2015 seguiranno a breve la presentazione di un ricorso alla Commissione Europea ed una lettera aperta al Presidente della Repubblica, contro la discriminazione delle persone con disabilità.

La presidente Boldrini chiede un periodo di rodaggio: perché quindi intendete continuare la battaglia nelle sedi europee? 

Il cosiddetto “periodo di rodaggio” è previsto dalla stessa legge sul Jobs Act, ma non ha alcun diretto collegamento con la nostra richiesta di eliminare una norma palesemente ingiusta e discriminatoria; restano, pertanto, pienamente confermati il nostro impegno e la nostra volontà di utilizzare tutti i mezzi possibili per cancellarla.

Le recenti modifiche del Jobs Act alla Legge 68 consentono sgravi fiscali crescenti, e soprattutto erogati in tempi rapidi, via via che la disabilità aumenta: perché secondo lei questi incentivi non sono sufficienti per chi ha una disabilità grave? 

Gli sgravi fiscali previsti dal Jobs Act non sono, a nostro giudizio, in grado di superare sostanzialmente le difficoltà di inserimento dei disabili più gravi, che sono imputabili all’atteggiamento di molti (troppi) datori di lavoro che non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di assumere un disabile grave e/o con problemi psichici: è necessaria una lunga e difficile battaglia culturale per vincere i pregiudizi negativi che ostacolano il loro ingresso nel mondo del lavoro.

Lei non teme che con la chiamata nominativa l’azienda si senta obbligata ad assumere e quindi i veri problemi possono presentarsi dopo l’assunzione?

L’obbligo all’assunzione di una quota di persone con disabilità, previsto dalla legge 68/99, è stato finora rispettato in maniera del tutto insoddisfacente per l’assenza di seri controlli e sanzioni adeguate: non sarà la generalizzazione della chiamata nominativa ad aumentare in maniera significativa il numero delle assunzioni delle persone con disabilità. D’altra parte le assunzioni dei disabili vanno sostenute e rese possibili creando le condizioni per un migliore inserimento sul posto di lavoro, che eviti il rischio della “rinuncia” e del conseguente ritorno a casa, soprattutto dei disabili più gravi e degli psichici.

Qual è un paese europeo che l’Italia dovrebbe prendere a modello e perché?

Non mi sembra ci siano modelli in Europa ai quali ispirarsi: in effetti è stata proprio la legge 68/99, che pure ha certamente limiti e difetti, ad essere stata considerata (in altri paesi europei), in qualche modo, un esempio da seguire.

Si tratta di parole preziose, che ci fanno capire come sia complessa la realtà. Altre associazioni, come ENS e Coordown, hanno fatto sentire la loro voce sul tema. Coordown ha deciso di sottoscrivere un ricorso alla Commissione Europea per violazione dell’articolo 5 della direttiva n. 2000/78/CE che stabilisce un principio di parità di trattamento e di condizioni di lavoro per le persone disabili. Secondo l’ENS, come spiega il presidente Petrucci, sarebbe auspicabile “che la quota riservata ai posti di lavoro per disabili fosse ripartita in quote percentuali diversificate in relazione alle tipologie di macrodisabilità, dividendo cioè le quote per i disabili sensoriali e le quote per i disabili fisici e psichici”. Un’idea, quella dell’ENS e non solo, che in un certo senso ci fa fare un tuffo nel passato quando, con la Legge 482/68 gli stessi disabili erano suddivisi in specifiche categorie.

Insomma, di carne al fuoco ce n’è davvero tanta e non sarà facile trovare la strada giusta. Da persona con disabilità, qual è il mio pensiero? Sono in tanti a chiedermelo e oggi vorrei provare a dare una risposta.

Credo che il cambio di passo sia allo stesso tempo benefico e traumatico (e non lo scrivo per diplomazia). Benefico perché serviva una scossa: il fatto che nei bilanci delle aziende siano già previste le sanzioni da pagare è un dato che parla da sé (e, ancora una volta: la responsabilità non è solo a capo delle aziende ma va egualmente divisa tra tutti i soggetti coinvolti). Traumatico perché modifica forse la percezione del lavoro per il disabile: non più soltanto un diritto inalienabile, ma un obiettivo che va inseguito e anche conquistato, come avviene per tutti. E questo mi convince ancora di più di quanto sia importante valutare la trasversalità delle competenze, la voglia del disabile di accogliere un nuovo paradigma e la capacità di tutti i soggetti di contribuire all’autodeterminazione della persona svantaggiata attraverso la rimozione di tutti gli ostacoli di natura fisica e culturale che limitano il suo cammino: questa, al di là della chiamata nominativa o numerica, è la sfida più difficile a cui tutti siamo chiamati. La vera rivoluzione si avrà quando la persona disabile, quale che sia il suo grado di handicap, avrà potere di scelta sul lavoro e, più in generale, sulla sua vita.

 

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