Si può ballare, se si ha una disabilità motoria? D’istinto, verrebbe da rispondere no e, fino a poco tempo fa, la pensavo anch’io così. Poi, ho scoperto la danceability

Era il 1987 quando due coreografi statunitensi, Alito Alessi e Karen Nelson, creavano la danceability, un metodo di danza basato sul principio per cui tutti, disabili compresi, hanno la possibilità e il diritto di esprimere la propria verve artistica anche nella danza. Basta trovare il metodo adeguato alle possibilità di ciascuno.

A distanza di quasi 30 anni, il metodo ideato dai due coreografi ne ha fatta di strada. Oggi, Alessi è il promotore di DanceAbility® International, un’organizzazione che si pone come obiettivo quello di promuovere il metodo, e la filosofia sulla quale si fonda, in tutto il mondo (Italia compresa!), con workshop, corsi e spettacoli.

Ma a chi è destinata la danceability? Solo disabili (motori, psichici o sensoriali)? No, tutt’altro. Durante i corsi, viene incoraggiata l’interazione continua tra disabili e normodotati, nella libera espressione consentita dalla danza. Non ci sono schemi, né posizioni rigide cui attenersi: sta alla creatività e all’ispirazione di ciascuno inventare la coreografia che ritiene più idonea. L’unica “regola” è lasciarsi guidare dall’istinto e, naturalmente, dalla musica.

Inoltre, questo metodo si rivela particolarmente utile anche per coloro che lavorano direttamente con persone disabili, perché consente di apprendere metodologie efficaci per stabilire un contatto con loro, a tutto vantaggio anche delle terapie fisiche o psicologiche.

Senza contare che, non “ghettizzando” le persone disabili in “lezioni dedicate”, ma mischiandole alle altre, la danceability riesce là dove, spesso, si arenano molte buone intenzioni: favorire e creare l’effettiva integrazione delle persone con disabilità (che sono, per l’appunto, persone, prima che patologie), sovvertendo e, spesso, demolendo i pregiudizi e i preconcetti su disabilità e dintorni.

Allora, che ne dite? Ci lanciamo in pista?

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